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Posts Tagged ‘storia’

La sera antecedente la sua esecuzione F.L. se ne stava con le gambe distese sul pagliericcio della cella e gli fuga-magritteavambracci appoggiati in modo tale da tenere schiena e testa sollevati dal giaciglio. La stanza misurava pochi metri di lunghezza per un paio di metri di larghezza e il mondo esterno non era che un quadratino di pochi centimetri da cui una luce fredda fendeva quel microcosmo e il suo pulviscolo per il lungo fino a scagliarsi contro la piccola e fredda porta di metallo. Nelle ore in cui si faceva più intenso, quell’alito di luce permetteva a F.L. di percorrere con lo sguardo le rughe del muro scrostato, o forse mai intonacato, della cella. Negli ultimi giorni questa era stata la sua unica occupazione. F.L. si sdraiava sulla branda situata sul lato sinistro del muro, individuava un solco di suo piacimento e con l’indice della mano destra ne seguiva le bizzose traiettorie anche là dove la luce non gli permetteva di arrivare con lo sguardo. Era proprio dove l’immaginazione sostituiva l’osservazione che quelle linee prendevano forma. A poco a poco si distingueva un naso, una bocca, un mento e più quelle linee venivano calcate dall’indice di F.L. e più egli poteva riconoscere i lineamenti di uomini e donne, a lui noti, che pochi giorni dopo lo avrebbero visto esalare l’ultimo respiro davanti ad un plotone d’esecuzione. (altro…)

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smile-e1341567496632Difficilmente può essere sfuggita la notizia del possibile attacco alla Siria da parte di alcuni paesi occidentali. Le cancellerie europee e nordamericane si scervellano su come e quando sferrare l’attacco al paese asiatico. Ora, non è mia intenzione aggiungere byte alla moltitudine di pensieri più o meno autorevoli che circolano sul web, o, per toccare il fondo del bicchiere, sul bancone del bar. Proprio oggi ho ascoltato un avventore di un innominato bar dire: “Siria, Siria, ma perché la menano così, tanto si sa che lo vogliono fare, no? e allora che attacchino senza rompere troppo.” E’ proprio qui il nocciolo della questione. Ciò che il cliente medievalizzato e molti altri anche più illuminati non concepiscono è il concetto di “pubblica opinione”. Se non si ha ben chiaro il significato e l’evoluzione di questo principio non si può capire perché le intelligence mondiali sudino tante camicie per trovare un pretesto (armi di distruzione di massa in Iraq, armi chimiche in Siria) da sbattere sulle prime pagine per salpare con la benedizione della nazione. Insomma, su tale concetto vorrei stendere la mia ragnatela di tasti.

Il nostro amico del bar, poco propenso alle elucubrazioni diplomatiche, sicuramente non avrebbe avuto problemi nell’ancien régime, il periodo storico precedente alla rivoluzione francese, epoca in cui i regnanti non dovevano spiegare a Tizio e Caio perché fare guerra a Sempronio. Se la città di Sempronio faceva gola, si cercava di prenderla, nessuno avrebbe contestato perché spinto da idee pacifiste o semplicemente di segno contrario. Senonché pure nei secoli bui i regnanti di ogni parte del mondo avevano bisogno di legittimare la loro privilegiata posizione, dapprima con la forza e il coraggio, poi con il “diritto divino”, quel discutibile principio per cui il potere di un monarca deriva dalla volontà di Dio. Non fu l’idea estemporanea di un re furbacchione, anzi, per convincere i più recalcitranti della bontà della teoria si scomodarono San Paolo e la “Città degli uomini” di Sant’Agostino. Non diversamente, in Giappone legittimazione dell’imperatore si basava sulla sua discendenza da Amaterasu, dea del sole.

Nell’europa riformata del XVII secolo iniziarono a circolare teorie del tutto opposte. La nuova “filosofia”, il modo di pensare basato sull’osservazione diretta dei fatti, fu applicato anche alla religione. Va da sé, il diritto divino, che in quanto ad astrazione non è secondo a nessuno, iniziò a mostrare la corda. Che fare? I monarchi più intelligenti, non a caso “illuminati”, volsero le nuove teorie a loro favore: non più ragion di stato e lo stato sono io, bensì pubblica felicità, il potere deve essere esercitato nell’interesse comune dei sudditi. Ripeto: interesse comune dei sudditi, non interesse privato dello stato. Qual’era poi l’interesse dei sudditi, ovviamente, lo decideva il re. Tuttavia le maglie si allargarono, nacquero nuovi spazi di aggregazione e comunicazione come salotti e accademie, si stamparono giornali. Certamente al povero cafone che doveva mescolare la polenta bigia come il Tonio dei Promessi Sposi, di tutto questo scrivere e parlare non importava un fico secco, manco sapeva leggere. E’ però in questi anni a ridosso della rivoluzione che nasce il concetto di “pubblica opinione”, ovvero il giudizio del popolo, il modo di pensare collettivo della maggioranza dei cittadini. Nei secoli successivi in nome di essa ci sarà chi si immolerà, mentre altri preferiranno ritornare al buon vecchio capo che decide per tutti senza troppi discorsi, altri ancora porteranno l’idea di partecipazione collettive all’estremo, finendo per cancellare proprio l’opinione pubblica. Ai giorni nostri la pubblica opinione è, nei paesi democratici, garantita dalla costituzione (art. 21 costituzione italiana). Per fartela breve, caro opinionista dell’espresso Lavazza, se Obama non può fare quel cavolo che gli pare è perché non è stato piazzato alla Casa Bianca da Zeus o da suo nonno Amurabi, ma (si spera) da quella pubblica opinione che lo ha scelto esercitando il diritto di voto.

Non hai capito? E dire che a votare ci vai… Maledetta democrazia…

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Non sono mai stato a Verdun e a quanto pare non v’è nulla di particolarmente interessante da vedere. Un memoriale, una cattedrale, un ossario risalente alla prima guerra mondiale. Meno di ventimila anime. Tutto qui. Se un giorno passerò dalla Francia nord orientale, regione Lorena, vi farò una tappa. Altrimenti non starò di certo a scomodare navigatori o ryanair. E allora perchè mi è venuta l’idea di parlare di questa cittadina al confine con la Germania? Beh, in verità la storia offre diversi spunti. Non è un caso se Verdun ospita il Centro mondiale della pace, delle libertà e dei diritti dell’uomo.

Verdun è un deja vu. A volte ritorna e fa sentire il suo peso geografico. C’è nella storia medievale, in quella moderna e pure in quella contemporanea. Del resto, la storia non fa mai nulla per caso. La posizione in cui sorge, quell’area tra la Mosa e il Reno, ha segnato equilibri (pochi) e conflitti (tanti) nell’europa negli ultimi duemila anni. Li vi era il limes dell’impero romano, quel confine che la romanitas non riuscì mai a superare e segnò, nei secoli seguenti, il punto di divisione tra il mondo latino e quello germanico.

Nel 843, con il trattato di Verdun, i discendenti di Carlo Magno si spartiscono il Sacro Romano impero. E’ la definitiva separazione dell’impero carolingio, la Francia si separa dalla Germania, la frontiera renana non è più solamente culturale, ma pure politica. Durante il medioevo Verdun subisce l’egemonia germanica. Si specializza come mercato degli schiavi e centro di produzione di eunuchi. Una storia che a noi contemporanei può far storcere la bocca, ma il peggio deve ancora venire. Nella seconda metà dell’ottocento si combatte la guerra franco-prussiana, che sancirà l’egemonia tedesca sull’europa. La città sarà teatro di numerose operazioni belliche.

Ma è nel secolo passato che Verdun diviene tristemente una città simbolo. Nel 1916, per undici lunghi mesi, la città è teatro della cosiddetta battaglia di Verdun. Vi perdono la vita un milione di soldati francesi, inglesi e tedeschi. Una media di tremila morti al giorno. E’ la più grande carneficina della grande guerra. Un intera generazione al macero. La storia non è mai magistra di vita, purtroppo. Pochi decenni e tutto si ripete. Sempre loro i protagonisti, Francia e Germania. Ma stavolta, niente Verdun. La linea Maginot, la linea di fortificazione ideata dai francesi per contrastare possibili aggressioni tedesche, viene aggirata dalla Wermacht. Verdun, incredibilmente, rimane fuori dalla storia.

Non per molto, però. Nel 1984 il presidente francese Mitterand e il cancelliere tedesco Kohl scelgono Verdun per un incontro conciliatore. Sono passati molti anni dagli orrori delle guerre, ma la violenza, si sa, è dura da estirpare. Un francese e un tedesco, ma anche un socialista e un conservatore. Un gesto dal grande potere simbolico. A Verdun, ovviamente.

Tante volte la storia degli uomini ha fatto tappa a Verdun. E’ una storia di divisioni, di lacerazioni profonde e sanguinolente. Altissimo è il prezzo pagato per arrivare alla distensione. Per secoli il sangue e l’odio sono corsi in riva alla Mosa. E Verdun stava li, altera, maligna, severa, sicura che prima o poi si sarebbe dovuti passare di li. E’ una storia finita? Penso di si. Oggi le guerre sono economiche e Verdun ha tutt’al più un mercato agricolo. Ma chissà, la storia è ciclica. E alla storia, Verdun, piace davvero tanto.

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Non si dovrebbe postare il finale di un film, scusate, ma è quanto di meglio per introdurvi al mio pensiero. E poi, a dirla tutta, questo film (“Noi credevamo”, ve lo consiglio assolutamente) parla di risorgimento e come è andata quella storia lo sappiamo tutti. Non voglio parlare dell’unità d’Italia e nemmeno delle panzane neoborboniche, preferisco soffermarmi sulla storia mai narrata di chi in quel cambiamento, così come in qualsiasi altra rivoluzione, c’ha creduto e messo tutto, senza ottenere altro che vedersi riciclare le stesse persone che comandavano prima o, magari, vedere comandare persone nuove, ma della stessa risma della classe dominante precedente. Il fatto è che ho smesso di credere alle rivoluzioni. O meglio, credo che le rivoluzioni siano esistite, spesso abbiano cambiato (in bene o in male dipende da chi le legge) la storia, ma ciò che è passata è sempre stata una versione edulcorata del messaggio iniziale. No, non intendo vendermi come reazionario. E’ una considerazione che può valere per qualsiasi rivoluzione di qualsiasi entità, colore politico, ideologia, religione. E’ la storia, insomma, che si ripete ad ogni cambiamento, quando si cambia solo l’abito e mai il monaco.Forse ho un problema con il potere, forse solamente sono più attratto dalla storia amara di chi perde nella vittoria. Si, perchè in ogni rivoluzione troverete persone che hanno tanto da perdere e riescono a non perdere nulla e altre che non hanno nulla da perdere e finiscono per perdere persino quel poco che avevano trovato: l’idea in cui credevano. Quelli che non facevano calcoli di convenienza , quelli che, beffa atroce, nemmeno possono dire di aver dato fastidio a chi comanda, perchè il potere può anche cambiare faccia, uniforme, lingua, ideologia, modus operandi, ma l’ambizione, la fame smodata di prevaricare e arrivare all’apice della piramide, quella no, quella rinasce da ogni brace. E vince sempre. Come qualcuno diceva, si nasce incendiari e si muore pompieri. Con tanti saluti a chi c’ha creduto: Noi. Noi credevamo.

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Rinnoviamo. Questo blog ha bisogno di una ventata di novità. Niente di rivoluzionario a dire il vero, per un sentimentalconservatore come me ogni movimento deve essere ponderato ed assimililato. E poi, se proprio vogliamo dirla tutta, si nasce incendiari e si muore pompieri, come diceva uno che ne sapeva più di me. Bando alle ciance, scusate ma mi perdo sempre una volta là e l’altra qua. L’idea è questa: ogni settimana citerò una frase famosa e aggiungerò un mio simil commento. Vorrei dire breve, ma conoscendomi…

Bene. Ecco la prima:

“Parigi val bene una messa”

disse il buon Enrico IV in una calda mattina dell’estate 1593. Avrebbe dovuto rinnegare la fede ugonotta e convertirsi al cattolicesimo per cingere finalmente la corona di Parigi. Questo lo disturbava non poco, ricordava sempre con nostalgia quelle belle giornate di guerra di religione quando, con gli amici ugonotti, rincorreva i cattolici in fuga cantando “Je suis Huguenòt”. Il pensiero non gli permise di prendere sonno la notte precedente al fatidico pronunciamento. Ma, all’improvviso, gli apparve in sogno uno strano personaggio dalla parrucca bianca e lo sguardo arcigno. Gli parlò del futuro della città, dei meravigliosi boulevard, del pret-a-portet, degli illuministi, dei meravigliosi palazzi e di tutti quei personaggi che l’avrebbero popolata negli anni a seguire. Ma Henri resisteva, “No, no, je suis huguenòt” e l’apparizione le tentò tutte, pure la carta Psg, ma non ottenne nulla finchè non accennò al Moulin Rouge e alle scosciate ballerine di Can Can. Con un rivolo di bava quel vecchio sporcaccione, reduce da più battaglie tra le gambe di donne che su quelle di un cavallo, non potè che dire “Oui! Oui! W le Pape!”. Superato l’abbandono ad Eros, si disse però rammaricato di dovere abbracciare la fede rivale. Ma l’apparizione lo rassicurò, spiegandogli che a quelli ci avrebbe pensato lui. Incuriosito, Henri chiese chi diavolo fosse. “Je suis Maximilien Robespierre, monsieur Henri Bourbon…” Risvegliatosi, Enrico chiamò il fido scudiero e disse “Preparati, si va a messa” “Che era imbriaco ier sera messer Enrico?” “No, coglione, la giarrettiera val bene una messa.” Ma della prima parte della frase non v’è rimasta più traccia e la seconda, diciamocelo, non era poi molto elegante sulla bocca di un Re e così fu cambiata.

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La storia

Ieri sera, prima di addormentarmi, come mio solito ho pensato a cose futili. Ho pensato alla “storia”, intesa non come storia naturale, ma come storia degli uomini. Sono partito da una considerazione: c’è una storia di serie A, quella che viene ricordata dai posteri, l’insieme di avvenimenti destinato a modificare gli avvenimenti successivi; una storia di serie B, quella che lascia traccia per un periodo ristretto di tempo e non porta ad influenze a lungo termine; una storia di serie C, l’insieme di tutti gli altri avvenimenti, nessuno escluso, nemmeno il cambio della carta igienica. Poi, sviluppando la mia riflessione, ho pensato che ragionare per compartimenti stagni non è mai corretto. E’ vero che ci sono storie e storie, ma esse sono collegate, così come le vite di chiunque abiti questo pianeta. Argomentando e prendendo ad esempio la vita di un personaggio storico di fondamentale interesse come Napoleone, è lecito chiedersi: quanti avvenimenti nel corso della vita lo hanno portato ad imprimere un tale cambiamento nel corso della storia? Ecco che in questi episodi paralleli entrano in gioco personaggi minori, comparse che nessuna grande storia ha (giustamente) mantenuto in vita e, a sua volta, storie di altri personaggi ed altri episodi sempre più piccoli che nel loro insieme hanno fatto da fondamenta per un avvenimento di maggiore importanza. La storia è un insieme di tante storie, alcune più importanti, altre meno, ma tutte collegate e inscindibili. Allora, prima di addormentarmi, ho pensato alla storia come ad un fiume da percorrere al contrario, dal mare verso la sorgente. Alla foce avremo tutte le storie, gli avvenimenti del sabato sera, gli amori di cui rimane ricordo solamente in chi li ha vissuti, piccole delusioni ed altrettanto piccoli successi. Risalendo il corso il letto del fiume si restringe e l’acqua si depura, molte storie scompaiono e, per selezione, ne rimangono solamente altre e via via sempre meno, fino al punto in cui rimane veramente poco e, in conclusione, questo fiume di ricordi scompare in una roccia portandosi con se domande a cui probabilmente non avremo mai risposta. Ma rimane il fatto che senza la sua foce un fiume non è un fiume e alla foce ci siamo anche noi, la storia siamo noi, come direbbe De Gregori. E così, dopo aver fatto la storia, mi sono addormentato.

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Prima ancora di Tarquinio Prisco e pure di Assurbanipal, ci fu un tempo in cui gli uomini si unirono davanti al fuoco e stabilirono che ci doveva essere una regola, una legge, insomma quello che millenni dopo Rosseau avrebbe chiamato contratto sociale, richiamandosi proprio a quei burberi piromani da lui chiamati buoni selvaggi, ma che di bello e buono, per i canoni attuali, avevano davvero poco. Filosofia spicciola a parte, già allora gli uomini erano divisi in tre categorie: i furbi, i leccaculo e i casca il mondo non mi confondo, caso mai mi incazzo più tardi quando ormai alea iacta est e non c’è più nulla da fare, tranne dare colpa al destino infausto che altro non ha da fare che segurmi passo passo. In quella ancestrale grigliata di beccacce c’erano due furbi: uno grande, prestante e dal fascino notevole, l’altro brutto e rachitico, ma grande affabulatore dalla voce sicura e squillante. I due si strizzarono l’occhio destro e dissero che così non si poteva andare avanti, ci voleva ordine e disciplina, il caos era dietro l’angolo e presto l’anarchia si sarebbe impadronita del mondo. Il furbo rachitico tuonò parole di fuoco verso gli astanti, disse che tre uccelli, quattro cerbiatti e pure una scrofa in calore gli avevano parlato durante una defecazione in un campo di ortiche e gli avevano presagito incredibili sventure se entro pochi giorni la combriccola non avesse trovato un condottiero in grado di difendere la carbonella per la griglia dalla marcescenza. Fu allora che l’aitante furbacchione si alzò e disse alcune assurde frasi studiate la notte precedente, fregnacce come “Tanti nemici tanto onore” e “perfida albione” e le disse così bene che i deretanisti si alzarono e sebbene non credessero ad una parola di quelle dette fino allora, si finsero entusiasti e festeggiaro con orge e equilibrismi vari fino al mattino. La categoria con il nome lungo non disse nulla e dopo aver violentato un paio di donne per compiacere i baccanti (non scandalizzatevi, solo Rousseau credeva che erano buoni selvaggi) se ne andarono a letto perchè il giorno dopo mica era festa e qualcuno doveva tirare avanti la baracca. Uno solo si alzò e disse che, secondo il suo modesto parere, tutto ciò gli sembrava proprio una gran fregatura e, se proprio si doveva scegliere qualcuno, era meglio andare per votazioni e non ascoltare le boiate di un ubriacone diarroico e tutto ripiegato su se stesso come un fiore sgualcito. Udita una tale aberrazione, il bel furbetto si staccò dal di dietro di una giovane pecora e inveì contro il ribelle con il virile membro ancora in mirabile tensione. Il poveretto si attirò così l’odio di tutti, leccaposteriori e maggioranza silenziosa, con l’unica defezione della pecorella che belò invano il suo canto di ribellione e nella calca che ne uscì, vendicò l’oltraggio subito con un calcio nei preziosi del sublime furbetto. Nel tumulto generale, il negazionista dell’ispirazione divina del potere terreno scappò altrove e organizzò un’inutile resistenza con la pecora come unica compagna.  Nulla fu più come prima, dopo quella notte. Cambiarono i rapporti tra le persone, tra persone e animali e perfino tra persone e fuoco, perchè da allora tutto ciò che prima era uno divenne bino, una parte, la migliore, per i due furbi e i migliori spazzolatori del momento e l’altra per i rimanenti, sempre che qualcosa rimanesse e scusate il gioco di parole. Certo, c’era chi pensava e perfino sosteneva a voce che qualcuno stava prendendo per i fondelli tutti gli altri, ma chissà perchè il giorno dopo tali stonature erano stralciate dal coro dei sbadigli di prima mattina, appianate come fossero dossi nella strada dritta che portava al campo di lavoro, attutite come fossero rugosità nei pagliericci che attendevano i lavoratori ogni sera. Senza contrasto alcuno, se non il rivoluzionario della prima ora e la pecora oltraggiata, i furbi si lasciarono andare ad ogni nefandezza, utilizzando a volte la forza, a volte la suggestione di tremende pestilenze provenienti dall’ira di chissachì. Tali profezie ebbero così successo sulla maggioranza del dormo-lavoro-mangio-riproduco-cacca-pipì-crepo che ben presto si utilizzò quasi esclusivamente tale tecnica di persuasione, provocando, tra le altre cose, i primi dissidi interni tra i due furbetti, nonchè l’ira del suddetto chissachì, che stufo di udire panzane di ogni genere in suo nome, inviò il figlio a sistemarli per le feste. Ma qui, cari lettori, ci siamo spinti troppo in avanti nel tempo e perciò possiamo dire che è un’altra storia.

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Velocità

Sono sempre in ritardo, mi capita pure di sognare di correre verso qualcosa contro il tempo. Io e l’orologio siamo in totale distonia, combattiamo una guerra impari, dove lui fa la parte del leone e io del coglione. Non pensate che le persone in ritardo vivano meglio, che non se la prendano,in verità convivono con un terribile senso di colpa, una voce che direttamente dai profondi anfratti della coscienza li avverte che sarebbe bastato davvero poco, magari aver spento il pc prima di ridare un’ultima occhiata a facebook, per non farsi compatire ancora. Velocità, velocità, la colpa è tutta sua. Spazio fratto tempo, il percorso che mi separa dall’ennesima triste figura diviso il tempo in cui maledirò le mie pessime abitudini. Una volta non era così, la velocità non si misurava perchè gli spazi erano immensi e i tempi avevano un’importanza relativa. C’era un vecchietto nella Bibbia, una star ante litteram, il cui nome era Matusalemme e rimase famoso per la sua longevità. E’ difficile paragonare questa star ante litteram con un profeta dei giorni nostri, tale Sid Vicious, la cui frase più famosa recita “Vivi veloce, muori giovane”. E giovane morì, il buon Sid, consegnando,come suo desiderio, un cadavere ancor bello ai posteri. Non diversamente si può dire della guerra. La più famosa del mondo antico, l’assedio di Troia,  durò ben dieci anni (immaginate cosa può voler dire rimanere dieci anni assediati in una città di qualche migliaio di anime? altro che mollo tutto e scappo in Canada). Peggio ancora fecero inglesi e francesi, la cui guerra medievale durò, tra sospensioni, recuperi e ripetizioni, ben cento anni. Oggi le guerre sono così veloci che i reporter van più forte delle pallottole. Nel 1967 il conflitto tra Israele e paesi limitrofi non durò che sei miseri giorni. Tornando alla saga omerica, il povero Ulisse impiegò altri dieci anni per percorrere i circa seicento chilometri che lo separavano da Itaca (hai voglia di aspettare con tutti quei Proci, Penelope…). La flotta del povero Magellano (povero perchè non fece ritorno in Portogallo) navigò tre anni per circumnavigare la terra. Più recentemente, nel 1873, Jules Verne ipotizzò un “Giro del mondo in ottanta giorni.” E che dire della musica, dove i lunghi tempi delle sinfonie classiche sono stati tagliati dai pezzi rock n’ roll, due tre minuti al massimo? Oppure la letteratura di casa nostra, passata dai cento canti danteschi al “M’illumino d’immenso” ungarettiano. Ma niente può sintetizzare meglio la velocità moderna come il Manifesto futurista “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità”. Insomma corpi snelli e veloci per abbattere tempi, costi, barriere e frontiere, come direbbe Baumann. Non più le corpulente e statiche donne rinascimentali, ma le azzimate modelline del pret a porter, in un processo che passa attraverso lo studio dei corpi in movimento. Minchia, che frenesia. E così si cerca nello yoga e in tutto ciò che viene da est un freno a questo liquido mondo. Ho letto che in alcune città si è sperimentato un nuovo limite di velocità, molto più basso, il quale consentirebbe di evitare semafori e code. Bene, forse in futuro mi basterà mettermi in fila per arrivare in orario.

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