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Archive for the ‘Racconti in cerca di autore’ Category

La sera antecedente la sua esecuzione F.L. se ne stava con le gambe distese sul pagliericcio della cella e gli fuga-magritteavambracci appoggiati in modo tale da tenere schiena e testa sollevati dal giaciglio. La stanza misurava pochi metri di lunghezza per un paio di metri di larghezza e il mondo esterno non era che un quadratino di pochi centimetri da cui una luce fredda fendeva quel microcosmo e il suo pulviscolo per il lungo fino a scagliarsi contro la piccola e fredda porta di metallo. Nelle ore in cui si faceva più intenso, quell’alito di luce permetteva a F.L. di percorrere con lo sguardo le rughe del muro scrostato, o forse mai intonacato, della cella. Negli ultimi giorni questa era stata la sua unica occupazione. F.L. si sdraiava sulla branda situata sul lato sinistro del muro, individuava un solco di suo piacimento e con l’indice della mano destra ne seguiva le bizzose traiettorie anche là dove la luce non gli permetteva di arrivare con lo sguardo. Era proprio dove l’immaginazione sostituiva l’osservazione che quelle linee prendevano forma. A poco a poco si distingueva un naso, una bocca, un mento e più quelle linee venivano calcate dall’indice di F.L. e più egli poteva riconoscere i lineamenti di uomini e donne, a lui noti, che pochi giorni dopo lo avrebbero visto esalare l’ultimo respiro davanti ad un plotone d’esecuzione. (altro…)

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Alla vecchia gatta debbo tutto, non c’è che dire. Ero un errore, il primo della speciale graduatoria degli incapaci che ogni consorzio non particolarmente civile, quello dei felini in primis, decide di sacrificare senza troppi rimorsi. Filomena, questo il nome della vecchia gatta, nel corso dei suoi dodici anni di vita aveva messo al mondo trentaquattro gatti: nove finirono annegati in una bacinella d’acqua, a dieci fu imposto il supplizio di Icaro (però non sono a conoscenza se Icaro fosse in effetti morto subito o, come alcuni di quegli sfortunati, dopo alcuni minuti), sei furono annientati da un amante focoso che voleva le mammelle di Filomena solo per sé, quattro non superarono la prima notte di vita, uno finì sotto la ruota di un’auto ancora in giovine età, mentre dei quattro rimanenti non ho notizia alcuna, se non che lasciarono questo mondo anch’essi in giovane età. Ora, prima che vi strappiate i capelli dal dolore, urliate il vostro disgusto e doniate un giorno del vostro calendario al culto della gatta Filomena, vorrei ricordarvi che la condizione del gatto di campagna è assai diversa da quella dei pasciuti e devitalizzati mici da appartamento. E poi vi darò ragione se direte che anche in campagna le cose sono cambiate, che avete notizia di gatti castrati e deformi che pur abitando in paesi senza connessione ADSL non hanno mai inseguito una lucertola. Un paio dei miei fratelli finirono a quella maniera. Ma nella vecchia casa di Borgo Rosso dove vidi la luce le lancette hanno sempre avuto un moto differente, più lento, quasi che ogni tanto si perdessero qualche tac. Dovreste averla vista, la vecchia Wanda, un generale di donna ormai da tempo abituata a gestire la casa senza marito, deceduto anni prima. Piglio risolutivo, poco propenso a facili tenerezze. Del resto, quella donna aveva avuto una vita non meno semplice di una gatta Filomena qualunque. Ed anzi, posso dire che tra le due femmine vigeva un accordo cameratesco, privo di quelle sdolcinatezze che a molti di voi hanno fottuto il cervello, ma non per questo privo di passioni. Quando Filomena fu in procinto di morire ricordo che la vecchia Wanda gli sedette accanto e, forse per la prima volta, gli accarezzò il ventre, a suo parere l’origine del male che la stava logorando. Allora ero un giovanissimo gatto, non avevo ancora compiuto il mio primo anno di vita e tutto mi sorprendeva. Quando si è giovani si pensa che il mondo sia così, punto e basta. E chi ci ha cresciuto, chi ha riparato ai nostri danni, sembra invincibile. Poi, un bel giorno, saluta e se ne va. E tutto ciò è troppo grande, troppo rumoroso. Soffrivo, sebbene di preciso non sapevo che significasse. Mi sentivo tradito: la gatta che contro ogni legge della natura aveva scelto di farmi sopravvivere ora se ne andava, mi lasciava solo. Non dimenticai mai le parole di Wanda: “E così mi lasci anche tu”. Con la saggezza di una vecchia contadina aveva condensato in poche sillabe tutto ciò che mi frullava in testa. Lo ripetei più volte, miagolando. Ma Filomena non poteva più sentire. Spirò poche ore dopo e Wanda gli donò una sepoltura da lei ritenuta “di gran lusso”. E quando pronunciava queste parole gli occhi vitrei si coprivano di lacrime. Era primavera e il sole preannunciava un’estate calda. Presto le grida di Simone e Giulia sarebbero state una colonna sonora quotidiana. Ma lungo tutto l’inverno nella casa di Borgo Rosso c’eravamo stati solo io,  Wanda e Filomena. E ora Filomena era sepolta sotto i nostri piedi/zampe. In suo onore sul cumulo erano adagiate un tris di margherite con il gambo intrecciato, mentre un bastone piantato in mezzo alla terra ricordava a tutti il luogo di sepoltura della povera Filomena, madre acquisita di Coda storta, il meno sano dei suoi figli e, per assurdo, l’unico che sarebbe sopravvissuto oltre la giovinezza. Il giorno dopo le margherite sarebbero state spazzate dal vento, mentre il bastone, divelto dalla stessa Wanda, sarebbe finito nella stufa, insieme al ricordo della gatta che mi fu nutrice. Un paio di mesi più tardi qualche cane rognoso avrebbe banchettato con le spoglia ossute di Filomena. Ma in quel momento ero triste, immensamente triste. Mi accucciai accanto ad un piede di Wanda. Avrei voluto sparire. Proprio come quella volta che mi accorsi che non era mia madre ad allattarmi, bensì Filomena. Wanda si chinò e mi concesse una carezza. Veloce, sgraziata. La prima e unica che ricevetti da lei.
A proposito di mia madre. Quella sgualdrina aveva odorato la primavera prima di tutti e già rotolava la schiena lanciando gemiti da far rabbrividire il più scafato dei gatti. Provavo un grande rancore. Talvolta cercavo la sua attenzione, non posso negarlo. Ma quella aveva in mente altre cose. Del resto pure quei babbei dei miei fratelli, dopo un primo svezzamento, avevano ricevuto sempre meno attenzioni. Tra loro ce n’era uno, ora non ricordo nemmeno se gli avessero assegnato un nome, che comandava la ciurma. La sua leadership era dovuta alle dimensioni delle zampe più che ad un innato carisma. Se avesse avuto anche un cervello, oltre che un fisico sproporzionato, non saprei. Ma dubito. Era violento, rissoso, arrogante, vendicativo, un vero e proprio bullo che scambiava i suoi simili per pungiball da riempire di ceffoni. Io ero il suo preferito. Come pungiball, intendo. Mi chiamava bastardo, mi diceva vieni qua rospo, zoppo, guercio e io scappavo ma quello aveva gambe migliori e puntualmente mi raggiungeva prima che io raggiungessi Filomena. E giù botte. Così, senza un preciso motivo. Il tutto aveva fine quando Filomena, allarmata dai miei lamenti, arrivava in mia difesa. Con la morte della mia madre adottiva la mia esistenza era diventata un vero e proprio inferno. Mi rifugiavo in Wanda, ne seguivo ogni passo. Ma in casa non mi era permesso entrare e la notte portava sempre rogne. Ma non durò a lungo.
Era un sabato di giugno. Da un paio di settimane avevo preso l’abitudine di nascondermi in un anfratto tra la nostra casa e la piccola cascina dove ero nato. Era poco più che una fessura. Non vi batteva la luce del sole e il nascondiglio era perfezionato da una serie di oggetti ivi incastonati e abbandonati da tempo imprecisato. Wanda non gettava nulla. Nessuno a Borgo Rosso gettava nulla. E’ peccato, dicevano. E riempivano ogni spazio disponibile di cianfrusaglie. Quelle cianfrusaglie erano la mia salvezza. Non sapevo quanto sarebbe durata, ma non mi importava. Il braccato pensa all’oggi, il domani è solamente un’ipotesi. Ad ogni modo per diversi giorni mi ero reso irreperibile da quell’aguzzino di mio fratello e questo lo aveva mandato su tutte le furie. Acquattato nell’anfratto lo udivo spesso sbraitare il mio nome seguito da elenchi di sevizie inenarrabili che avrebbe recapitato sul mio povero corpo non appena lo avesse avuto tra le zampe. Ogni giorno aggiungeva qualche tortura e il tono si faceva sempre più veemente. Ero sicuro che sarebbe stato capace di fare ciò che prometteva e forse anche peggio. Era un mostro incontrollabile. Chiunque avesse visto i trattamenti riservati a lucertole e passerotti ne era rimasto inorridito. Quel giorno, come ogni sabato, Wanda si era recata al cimitero dal marito. Io, che per questione di sopravvivenza avevo memorizzato tutte le sue abitudini, mi ero già rifugiato nel mio nascondiglio. Devo dire che quando Wanda era a casa preferivo la sua protezione, più che sicura, alla fessura tra la casa e la cascina. La notte e quei rari momenti in cui si assentava, invece, sgattaiolavo (è il caso di dirlo) nel mio anfratto nascosto. Quanti danni arreca l’eccesso di sicurezza! Mi assopii e come mio solito ebbi un sonno breve ma turbolento. Devo aver dimenato le zampe, scalciato scatole metalliche del secolo antecedente, rivitalizzato catene arrugginite di buoi ancestrali, insomma fatto un gran casino. Quando ripresi coscienza vidi un gatto all’entrata dell’anfratto. La base del corpo rimaneva fuori, ma la testa e le spalle erano protese verso il buio del nascondiglio. Se ne stava lì così, da quanto non saprei dire, e mi fissava. Sentii lo stomaco farsi tutt’uno con i polmoni. Non riuscivo a riconoscerlo, indovinavo dalla stazza che doveva avere per lo più la mia età.
“Guarda un po’ chi c’è qui” disse. Riconobbi la voce. Era uno dei miei fratelli, ma non il boia. Non dissi nulla. Mi rannicchiai fino a scomparire e lo fissai implorante.
“E’ inutile che ti nascondi, Coda storta. Ti ho riconosciuto.” Il tono era stranamente silenzioso. Questo mi diede coraggio. Forse non aveva intenzioni cattive. A parte il boia, del resto, nessuno dei miei fratelli aveva mai alzato le mani contro di me. O meglio: nessuno lo aveva fatto di sua iniziativa, ma soltanto su richiesta del sadico.
“Ciao.” Fu tutto ciò che fui in grado di dire. Avevo la coda elettrizzata. Quello invece la muoveva sinuosamente.
“Sai che faccio ora, Coda storta?” disse. Lo lasciai continuare. “Ora, caro Coda storta, chiamo nostro fratello”
“No!” dissi scattando sulle zampe. E lo avrei urlato, se il fiato non mi fosse venuto meno.
“E invece si!”
“No! No! Ti prego, ragiona. Ma perché? Perché? Lo sai anche tu come andrà a finire se lo chiami! Ma insomma, ma che ti ho fatto? Ma che vi ho fatto?” E quasi piagnucolai. L’altro per un po’ tacque. Teneva gli occhi fissi su di me e aveva preso a far vorticare la coda. Pensai di averlo impietosito, ma mi sbagliavo.
“Venite! Venite presto!” miagolò con quanta voce aveva.
“No!” risposi con uguale forza. Ero in preda al terrore. Il corpo pronunciato in avanti. “Ascolta, facciamo così: picchiami tu. Si, dai, io non oppongo resistenza. Mi chino e tu mi picchi. Eh? Ti va?” Ma a quello di picchiarmi non interessava proprio. La sua anima servile era proiettata verso il capo. A lui doveva rendere conto, lui doveva compiacere. Continuò a chiamare gli altri. Io lo guardavo, lo imploravo di smettere, ma quello sembrava indiavolato, la faccia contorta in una smorfia indicibile, quasi caricaturale. A breve il mio boia si sarebbe palesato alle sue spalle. Dovevo agire. Se fossi rimasto in quell’anfratto questa storia sarebbe terminata qui. Feci un gran balzo e mi gettai sulla spia. Rotolammo entrambi per una frazione di secondo. Fui il primo a tirarmi su. Ed eccola, ormai a pochi metri da me, la sagoma dell’aguzzino. Ricordo come fosse oggi: il pelo nero, il corpo largo il doppio del mio, gli occhi iniettati di sangue, la bocca contorta. Presi a correre senza una meta, senza un piano di salvataggio. Era la prima volta che correvo per le vie del paese. Svicolavo tra case sconosciute, cambiavo direzione, saltavo tombini. Lo sentivo dietro di me, sentivo le sue zampe sempre più dappresso alle mie. Era più grande, aveva gambe più sane e non essendo un rifugiato come il sottoscritto conosceva le vie di quel borgo a menadito. Se in quel momento avessi pensato a tutto ciò, se la scialuppa di salvataggio non fosse stata pilotata dall’istinto di sopravvivenza, avrei mollato: tanto non c’erano speranze. D’un tratto le case finirono e sotto le zampe mi ritrovai la scarpata ripida che colmava il dislivello tra il paese, abbarbicato su un colle e la strada di sotto. Rotolai giù e quando mi fermai la testa girava come una trottola. Mi ripresi quando l’aguzzino stava per agguantarmi con un balzo, manco a dirlo, felino. Non so come, ma riuscii a scansarlo. Corsi verso la strada asfaltata. Nel mentre passò la corriera.
La cui ruota mi sfiorò la coda.
E prese in pieno mio fratello.
Lo sentii rantolare. Mi avvicinai con la premura che si usa con un mostro, sebbene praticamente morto. Gli occhi saettavano ancora odio. La bocca avrebbe voluto dare fiato a cose orribili, ma sputava solamente sangue. Se ne voleva andare come aveva vissuto quel misero anno. Un essere ignobile.
“Addio” dissi. E mentre mi allontanai aggiunsi: brutta merda. Era la prima volta che sorridevo in vita mia. Avevo su per giù un anno di vita.

 

https://allegriadinubifragi.wordpress.com/2014/08/18/vita-di-coda-storta-gatto-bastardo-cap-1/

VITA DI CODA STORTA, GATTO BASTARDO. Cap. 2

 

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Non so cosa accada a voi bipedi dopo la morte. Se anche lo sapessi, sia chiaro, non ve lo direi. Conosco bene la vostra indole: non aspettereste altro per tirare finalmente i remi in barca e smozzicare qualche parola del tipo “Tanto” “Ah beh, allora” “Bene, a posto così quindi”. E non fate i razionalisti, in fondo, lo so, ci sperate un po’ tutti. Ad ogni modo, niente uscirà da queste labbra feline. Lavorate, pensate e filosofate. Siete così bravi a filosofare, quando volete. Già, quanto avrei voluto essere il gatto di uno di quei filosofi dalla barba folta e incolta. Ma tant’è. Ad ogni modo, posso raccontarvi che ne è di noi gatti quando un’automobile ci sfracella contro il marciapiede, o quando i vostri croccantini chimici ci fanno defecare il fegato e le nostre povere ossa finiscono tumulate sotto un sasso che presto diverrà uno dei pali della porta dove i vostri marmocchi esibiranno le loro mai nate doti calcistiche. Non accade niente di che, a dire il vero. (altro…)

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rosso

Il fischietto sibila e le porte, azionate da un qualche algoritmo di vecchia data, si serrano con un rumore deciso che ha in sé qualcosa di definitivo. Clang! Non si torna più indietro! Come il Mar Rosso, come il muro di Berlino, come la cortina di ferro. Poi tre toni in scala dal più alto al più basso e infine qualcosa, lì sotto, si muove. Il corpo asseconda il movimento ondeggiando dalle caviglie alla nuca. A pochi chilometri di distanza Giulio Cesare proferì la celebre “Alea iacta est”. Sono passati duemila anni e il dardo è di nuovo tratto, la freccia inizia la sua rutilante accelerazione verso l’altrove, il lontano, il domani, la realtà. Già, la realtà. Che non è quella di oggi e non è nemmeno quella di ieri, che non è queste ore passate insieme, ma è le ore che passeremo domani, dopodomani e il giorno dopo dopodomani. Ma forse no, forse la realtà è anche questa, forse il tutto comprende anche quelle ore avvinghiati, i tuoi capelli, le parole sussurrate e quelle gridate e le nostre risate. C’è un antidoto per tutto, qualcuno disse. Non so, forse aveva ragione. Fatto sta che fatico a paragonare quella maglietta rossa ad un antidoto, mi fa ridere, anzi. Ora potrei dirti qualsiasi cosa e tu difficilmente riusciresti a capirmi. Cosa? Non capisco! E l’indice puntato verso l’incolpevole orecchio. Eppure io avrei ancora tanto da dirti. Chissà perché le parole più belle, quelle più nette, arrivano quando i dardi con le ruote di ferro sono ormai tratti. Si, tranquilla, non mi sporgo troppo. Ecco, mi sono voltato un attimo per controllare di non incocciare davvero la testa contro un palo e ti ritrovo più piccola. Non vedo più i tuoi occhiali, scorgo la testa, si, ma ancora per poco. E poi vedo un braccio che si alza e si allarga e ogni tanto la mano si avvicina alla testa e quasi mi sembra che tu voglia fare il verso agli indiani. Si ride per non piangere, capisci. Sei una macchia rossa, ora. E io ti parlo, ti dico cose che appena pronunciate svolazzano via tra le case e la strada ferrata. Forse arriveranno al mare e questi te le allungherà nel letto insieme alla fresca brezza della sera. E’ rimasto un punto rosso. Una barra blu con il nome della città e un piccolo punto rosso. Il dardo con le ruote di ferro si piega sulla sua destra. La mia mano si chiude, l’indice accarezza il palmo della mano. Una carezza ruvida, la mano d’un tratto arida come quella di chi ha lavorato la terra per una vita intera. Guardo davanti a me: uno spicchio di mare all’imbrunire, una ruota panoramica, insegne di hotel incastonate ovunque. Chiudo il finestrino e mi adagio sul sedile. Nel mio scompartimento una ventina di persone. Davvero non mi capacito. Le guardo una ad una, si, mi alzo e osservo i miei compagni di viaggio e me ne infischio se sono a chiedersi quale strano disturbo affligga la mente di questo ragazzo. Guardo e penso che forse va di moda il rosso, quest’anno. O forse davvero aveva ragione quel tale a dire che c’è un antidoto per tutto. Ed io vedo punti rossi in ogni dove. Sorrido, anche se tendere il labbro inferiore mi fa un po’ male. Niente più hotel a dieci piani né ruote panoramiche, ma case basse e auto parcheggiate nei cortili. E tu, piccolo punto rosso, ormai fuori dalla stazione. Ma perché, poi? Perché non immaginarti ancora là, con il braccio alzato sotto il cartello blu con il nome della città. Più ci penso e più ci credo. Mi alzo di scatto, tiro giù il finestrino e sporgo la testa. Il vento, squarciato dal dardo dalle ruote di ferro, mi riempie di scopaccioni. Si, lo vedo: un piccolo punto rosso in fondo al buio. Avrà un gran da fare questa notte il mare a raccogliere la striscia di parole, risa e pensieri che il vento sparge dietro al dardo dalle ruote di ferro. Una lunga striscia rossa partita da un punto altrettanto rosso. Quasi una cometa.

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La banca della piazza dell’orologio aveva una forma circolare con due estremità appiattite, da una parte l’entrata, dalla parte opposta gli sportelli. Al centro dell’ambiente una dozzina di panche metalliche ospitavano, in quel mattino d’inizio inverno, un totale di dieci persone, a cui si aggiungevano due impiegati e due clienti in prossimità degli sportelli. Alle ore dieci e trenta entrò un uomo con un cappello marrone scuro a tesa larga, occhiali da sole, sciarpa marrone che copriva il volto fino alla punta del naso e cappotto lungo fin oltre le ginocchia. Superò la porta girevole e si presentò nell’atrio della banca. Nella mano destra stringeva una borsa di pelle di un colore che, un tempo, doveva essere stato marrone. L’uomo osservò la posizione delle altre persone, si incamminò alla sua destra, passò accanto all’emettitrice automatica di biglietti senza degnarla di uno sguardo e si andò a sedere sulla quarta panca a partire dagli sportelli, la postazione più lontana dalle altre persone in attesa sulle panche. Guardò il grande orologio sopra gli sportelli: erano le dieci e trentuno minuti. Abbassò lo sguardo e fissò la valigetta, osservò la sua mano destra stringere il manico di questa e quindi guardò nuovamente l’orologio. Ma erano sempre le dieci e trentuno minuti.

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Carmine il guardiano infila la chiave e apre il cancello. Si chiede a cosa possa servire chiudere ogni santissima sera un cancello di un metro di altezza, pure un bambino lo può scavalcare. Sbadiglia e si accende la seconda sigaretta della giornata. Si massaggia le guance cercando tepore nello sfregamento. E’ ancora ottobre ed è già inverno. Pessima stagione. Carmine sputa in terra ed inizia il suo giro di perlustrazione. Per prima cosa si dirige verso la pagoda. Oggi Dimitru non c’è e probabilmente non lo si vedrà più da quelle parti fino ad aprile. Povero Cristo, pensa Carmine, tutte le notti all’addiaccio, d’estate in un parco e d’inverno? D’inverno lo sa la Provvidenza dove lo mette. Il solo pensiero lo fa rabbrividire. Prega per lui, prega che qualche comunità lo accolga per l’inverno prossimo. Alla Tv dicono che sarà terribile e Carmine sa che al giorno d’oggi quelli del meteo non sbagliano mai. Non c’è nemmeno Hasan, ma di lui a Carmine interessa poco. Hasan è uno stronzo, ha detto ieri Carmine a Dimitru dopo un diverbio. E pure Dimitru, che è talmente buono da condivide il poco pane con i piccioni, ha dovuto ammettere che si, Hasan è proprio uno stronzo. Il brutto di questo lavoro, pensa Carmine, è avere a che fare con gente come Hasan. Sempre meglio che vent’anni fa, però, quando, ancora ragazzo, salì in questa città dalla natia Caltanissetta. Allora i parchi erano infestati di siringhe e al posto di Hasan e Dimitru c’erano tossici con volti cadaverici e vomito ovunque. Ogni mattina, mentre percorre il sentiero dei cedri, Carmine pensa al suo terzo giorno di lavoro: 4 settembre 1992, terzo cedro a destra, ragazzo di vent’anni, biondo, deceduto, segni particolari: siringa ancora conficcata nel braccio destro. Carmine conserva ancora il trafiletto di giornale, c’è il suo nome e la sua testimonianza riassunta in due righe. Carmine in quei giorni chiamò due volte Caltanissetta. La prima per raccontare la macabra scoperta: “Mamma, ho l’immagine del ragazzo impressa nella testa. Come potrò dormire più?” La seconda per raccontare dell’articolo: “Mamma, ti mando la fotocopia, c’è il mio nome sul giornale mamma!”

Le foglie cadono. C’era una poesia che diceva qualcosa sulle foglie e l’autunno, ma Carmine non ricorda. Ricorda un disegno, forse era nel sussidiario, c’era un filo spinato e un soldato in lontananza. Era una bella poesia. Una poesia è bella quando la ricordi nei momenti più improbabili, come ora, pensa Carmine mentre spazza il viale dei castagni. Carmine ha la terza media e non si rammarica di non avere studiato. La sua filosofia è pratica: studia chi ne ha le capacità e le possibilità economiche. A Carmine mancavano entrambi. Va bene così, non serve lamentarsi, anzi, poteva andare peggio. Se non era per il prete che mi trovò questo posto al nord, pensa Carmine mentre raccoglie i rami caduti, chissà dove sarei oggi. Forse in galera, come il cugino Vito, forse a lavorare in nero per due euro e cinquanta all’ora, come suo fratello Nicola.

I vecchi sono i primi ad arrivare. Alle nove le panchine migliori, quelle esposte al sole, sono già tutte occupate. Giovanni legge il giornale e non si preoccupa di ciò che accade attorno. La Carla è invece molto loquace, ma non sa ascoltare, è una di quelle persone che non concepisce la funzione della comunicazione. Carmine ha letto su una rivista che la comunicazione è di due tipi, da un mittente a un ricevente, ad esempio la Tv e tra due entità entrambi mittenti e riceventi, come nel caso di due persone a colloquio. Carmine ha subito pensato alla Carla, si è chiesto se, per caso, avesse lavorato in Tv o alla radio. Ma poi si è ricordato che lavorava in una fabbrica di conserve. Già, quante volte l’ha ripetuto, pensare che lui non è mai riuscito a fargli intendere di essere siciliano.

Beppe arriva intorno alle dieci. Beppe è un vero signore. E’ vedovo, ha perso la moglie due anni fa, un brutto male. Ha un figlio, ma vive in Australia. Beppe è rimasto solo. Lavorava in banca, quando le banche erano fatte di uomini, come ama ripetere a chiunque incontri. Beppe parla volentieri con Carmine. Capita che l’ex bancario lo segua addirittura nei suoi lavori nel parco per continuare a conversare. A Carmine si gonfia il cuore: nessuno gli ha mai conferito una tale importanza. Si ripete sempre che lo deve dire a mamma, mamma un bancario che mi segue fin nella latrina per godere della mia compagnia! Ma poi si dimentica sempre. Con Beppe si parla di Sicilia, lui c’è stato tre volte ma mai a Caltanissetta, si parla di politica, Carmine ne capisce poco, ma è cosciente che il partito migliore sarà quello che gli suggerirà Beppe.

Alle undici arrivano le madri con i bambini a passeggio. A volte sono i padri ad accompagnare i passeggini. Carmine ha notato che negli ultimi anni sono sempre di più gli uomini che fanno le mamme. Questo non lo capisce proprio. Va bene la modernità, ma ci sono lavori da maschi e lavori da femmine. Non c’è da meravigliarsi, come diceva la nonna Angelina, undici figli, il mondo è una ruota che gira, ma non si torna mai al punto di partenza.

All’una finisce la scuola e una fiumana di scolari si riversa nel parco. Fanno un gran casino e spesso non si comportano bene. Capita che rompano qualcosa e Carmine debba ripararla. Ma Carmine gli vuole bene lo stesso. Gli piacciono i bambini e vorrebbe averne uno. Beppe gli chiede “Cosa aspetti? Hai quarant’anni suonati” e allora Carmine risponde sempre allo stesso modo: “I bambini si fanno in due. E io sono solo.” E quindi sorride e si accende una sigaretta.

A Carmine non piacciono molto le badanti dell’est. Arrivano al parco con i loro assistiti e blaterano al telefono le loro lingue incomprensibili, si siedono sulle panchine e parlano tra loro, rientrano verso casa e parlano di nuovo al telefono. La peggiore è la badante della Luisa. Quella povera elemosina parole perfino ai bambini. Nessuno parla con Luisa, non ci parlano i figli che hanno altro da pensare e soprattutto non ci parla la sua badante. Carmine ne ha discusso con Beppe. Lui dice che bisogna cercare di capire anche queste badanti, sono donne sole in terra straniera, il lavoro è pesante e un discorso nella tua lingua madre è spesso l’unico rimedio alla frustrazione. “Sai, Carmine, spesso sono persone istruite e devono andarsene perché i loro paesi sono poveri come la tua bella Sicilia, Carmine.” Ma Carmine dice che la sua Sicilia è differente. Un giorno, per dimostrarlo, ha chiamato sua sorella Annunziatina e gli ha proposto di venire al nord per fare la badante. Annunziatina ha rifiutato, ha detto che non fa per lei e che per quei lavori lì ci sono le donne dell’est. Carmine ci è rimasto male. Del resto Annunziatina è deficente, lo ha sempre pensato. In ogni caso, il lavoro è sempre lavoro e quelle badanti sbagliano. Se non gli va bene assistere gli anziani, possono tornare da dove sono venute. Ma questo a Beppe non lo dirà.

La badante della Lisetta è differente da tutte le altre. E’ una ragazza affettuosa, non parla molto bene l’italiano, ma sa ascoltare. Senza dubbio finge, pensa Carmine, ma lo sa fare bene e alla Lisetta, in fondo, basta questo. E’ una ragazza moldava, un po’ in carne, ma con lineamenti delicati e due occhi azzurri profondi come il mare di Sicilia. A Carmine piace guardarla di nascosto, mentre si occupa del suo lavoro. Ieri Carmine ha staccato una rosa dal roseto per lei, ma poi non ha avuto il coraggio di dargliela. Tornato a casa si è maledetto, rischiare un rapporto sul lavoro per nulla. La notte, prima di dormire, Carmine pensa a lei. Ne ha parlato con Beppe. Lui dice che il tempo è prezioso e che deve prendere il coraggio a due mani e lanciarsi. Ma Carmine non ha esperienza, le donne gli mettono timore. Allora Beppe ha detto che lo avrebbe aiutato, che sarebbe andato a parlare con la Lisetta e così avrebbe stabilito un contatto con la ragazza. “E’ una tecnica di guerra” ha detto Beppe sogghignando “si chiama testa di ponte.” Carmine non ne vuole sapere, un vero uomo deve prendersi le proprie responsabilità, punto e basta. Ma i giorni passano e il coraggio non arriva. C’era un prete che diceva qualcosa come “il coraggio chi non lo ha non se lo inventa.” Che libro era? si chiede Carmine.

Carmine torna a casa alle otto in punto. Abita in una mansarda nel centro storico, poca luce, poca aria e tanta polvere. Spazzare e togliere le ragnatele non è cosa da uomini, ma femmine per casa non ce ne sono e qualcosa deve fare. Poco, a dire il vero, quanto basta per non vivere in un porcile. Carmine posa la forchetta sul piatto vuoto. Rutta l’insipido sugo pronto e spegne la Tv. E’ stufo, si, è stufo della Tv, della pasta con il sugo pronto, è stufo di spazzare in terra e di lavare i pavimenti. E’ stufo, soprattutto, di passare tutte le sere da solo, nell’attesa che venga il mattino e possa chiacchierare con Dimitru e Beppe.

La solitudine è un sugo che all’improvviso scopri insipido, una conduttrice che non ha più nulla da far vedere. Di chi era questa frase? Carmine non ricorda. Se avesse più fiducia in se stesso, non avrebbe problemi a rispondere: è mia, io sono il poeta. Ma Carmine, davanti allo specchio e davanti al mondo, è solamente il terrone guardiano del parco. Non gli è richiesto pensare, ma spazzare. Così ha deciso di dare il consenso a Beppe. Ma si, che parli con Lisetta e faccia da “testa di ponte” per arrivare alla badante. Beppe è un signore, saprà sicuramente il da farsi. Ecco, magari Carmine chiederà a Beppe di dedicargli, da parte sua, quella frase sulla solitudine che gli è venuta in mente prima. E’ così bella. Beppe la conoscerà sicuramente.

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Arcobaleno 1

Ciò che vediamo delle persone non è che una membrana, pensò. All’interno c’è un caleidoscopio di colori, a volte accesi e caldi, altre volte cupi, se non del tutto spenti e freddi. Nella sua cosmografia interiore questi fasci di luce si intrecciavano tra loro formando delle nervature a livello della membrana. E’ un irradiamento disomogeneo, ogni persona le può avere sviluppate maggiormente in punti diversi. E’ una questione di sensibilità, pensò. Lui sapeva benissimo dove cercare la propria sensibilità. Si accarezzò il petto, le dita sfioravano la peluria sopra lo sterno e gli donavano un senso di quiete profonda. Quelle dita non erano che l’aratro che preparava la terra alla semina. Il petto attendeva la testa di Lei da una settimana. Ancora pochi minuti e quelle dita della mano destra non avrebbero più brulicato sul petto, ma in quella selva di capelli. Avrebbe giurato, si ne era proprio sicuro, che in quel momento il petto si sarebbe aperto e tutti i fasci di luce del suo corpo sarebbero stati liberi di espandersi nell’aere.

E ora finalmente insinuava le dita tra i capelli come se sfiorasse fili d’erba per arrivare al terreno. Era un terreno caldo e friabile, le dita non incontravano resistenza. Ecco, ora poteva pizzicare le sue fasce di nervi colorati. Chiuse gli occhi e pensò che non poteva che essere così, un solo unico intreccio di colori. Riaprì gli occhi e guardò la stanza. Ovunque era arcobaleno.

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Simone osserva il suo volto riflesso nello schermo e pensa che il suo tablet ha due grandi difetti: la luminosità e la velocità di download. Passi il fastidioso riflesso (la sua faccia, del resto, la deve sopportare ogni mattina), ma quella lentezza cosmica nel caricare i video proprio no.

“Insomma, mi vuoi dire se ti è piaciuto il concerto?” chiede Luca.

“Un attimo!” Simone è seduto con la gamba destra accavallata sopra la sinistra. Quest’ultima freme e si dimena in un tremolio nevrotico e veloce che costringe al movimento anche l’incolpevole gamba destra.

“Si va beh, ascolta un pò, puoi anche raccontare a parole, non c’è bisogno che facciamo le radici.”

“Ti dico di aspettare! E un attimo, cazzo!” Così dicendo, Simone volge lo sguardo verso l’amico. Un’occhiata rapida, quanto basta a Luca per leggere negli occhi arrossati di Simone il malcelato nervosismo a cui il disguido tecnologico lo sta portando. Luca si guarda attorno e cerca un appiglio, un elemento qualunque nel paesaggio a cui aggrapparsi per uscire da quella situazione noiosa. Ma non trova nulla e poi, pensa, non sarebbe nemmeno garbato allontanarsi senza aver dato soddisfazione a questo disgraziato. Allora inspira aria e successivamente la emette in una maniera che rimane indistinta tra lo sbuffo e il sospiro. Infine si lascia cadere al fianco di Simone.

“Merda merda merda! Aggeggio del cazzo, non serve a una fava! Qualche giorno mi voglio togliere la soddisfazione di sbatterlo contro un muro!”

“Mah, se proprio devi, conserva almeno quel briciolo di lucidità per darmi uno squillo un attimo prima. Lo prendo volentieri io. Del cazzo o no, a me può sempre servire.” Ma Simone non è in vena di sarcasmi. Azzanna la pelle morta attorno all’unghia del pollice destro con la ferocia di una tigre. Gli occhi sono fissi sullo schermo ma non puntano costantemente lo stesso obiettivo: a volte è un brufolo sopra l’arcata sopraccigliare sinistra, a volte la quasi impercettibile peluria sullo zigomo destro, a volte semplicemente quel cerchietto rosso sul cui perimetro corre qualcosa che si può paragonare alla sua crescente nevrosi.

Luca osserva un passerotto zampettare a pochi metri da loro. Per qualche decina di secondo l’animale cattura la sua attenzione, poi se ne vola via e porta con sé l’unica distrazione che Luca aveva per non pensare a quanto tempo stia inutilmente perdendo. No, così è troppo, pensa. Lascia cadere le mani a peso morto sulle ginocchia e dice, guardandosi le scarpe:

“Ascolta, Simo, non so se hai capito che quell’affare ora non ha alcuna intenzione di caricare il tuo video. E del resto, se proprio devo dirlo, non caricando il video mi sta facendo un favore.”

“E perchè?” risponde  Simone piccato, senza però staccare lo sguardo dallo schermo.

“Perchè, capiscimi, io ti ho solamente chiesto com’è andato il concerto, niente di più.”

“Ecco, appunto. Stavo caricando il video che ho fatto….”

Luca lo interruppe sovrastandolo nella voce e nella gestualità. Allarga le bracce ed esclama con tono enfatico “No, no e no! Allora, ti ripeto, non mi frega un cazzo del tuo video. Se vado su internet trovo qualsiasi cosa riguardante quel gruppo lì che manco mi piace. Forse, senza esagerare, si trova perfino una radiografia del sedere del cantante, a cercare a fondo. Puoi dirmi, gentilmente, una tua impressione su questo concerto?”

“E che ti devo dire?”

“Mah, non so, ti è piaciuto?”

“Si, certo. Sai bene, è uno dei miei gruppi preferiti”

“Che canzoni hanno fatto? Hanno suonato Believe in rock? E’ una delle poche che mi piace.”

Simone alza lo sguardo e osserva un albero cercandovi la risposta alla domanda, ma per quanto osservi distintamente ogni foglia, non riesce  a trovare né un si né un no. Com’è possibile, si chiede, che non riesca a ricordare se han fatto Believe in rock?”

“Allora? L’han suonata o no?”

“Si… si, l’han suonata…”

“E Mountains of love?”

Simone cambia musa per la sua concentrazione, ma il tombino alla sua destra non ha più risposte dell’albero in precedenza. Incredibile davvero. Nemmeno di questa canzone si ricorda. A dire il vero, ora che ci pensa, non si ricorda nemmeno una canzone suonata al concerto. E’ spaesato, non sa che dire “Non me lo ricordo, a dire il vero…Non ricordo molto, se devo essere sincero…”

“Ma eri ubriaco?”

“Macchè ubriaco.”

“Eri lontano dal palco?”

“Assolutamente, non più di dieci metri.”

“Allora eri vicino. Com’era vestito il cantante? Di solito per i live utilizza travestimenti piuttosto stravaganti, no?”

Simone è ormai in preda al panico. Non ha nessuna risposta, è come se a quel concerto non fosse mai andato. Perchè non ricorda nulla? Perchè nessuna immagine si è impressa nella sua mente?

Luca incalza “Insomma non ricordi nulla. Bel modo di spendere 40 euro.”

“Se solo sto affare di merda caricasse il video! Ho filmato tutto, dall’inizio alla fine.”

“E per filmare tutto non hai visto un bel niente” ribatte Luca con fare risolutivo. Si alza con lo slancio sicuro di chi sa di aver fissato l’ultima parola e stira le braccia. Poi si volta verso Simone, rimasto ammutolito e dice “Ascolta un consiglio: la prossima volta che vai ad un concerto lascia stare il tablet. Il concerto era ieri sera, se vai su YouTube oggi ci saranno già migliaia di video di stronzi come te che si son fatti venire l’artrite al braccio destro per fare orribili filmati che nessuno, giustamente, si prenderà la briga di guardare. Ci vediamo più tardi, vado a casa.” E così dicendo saluta il povero Simone, quanto mai solo nella sua misera constatazione di stupidità. Ora è tutto chiaro: non ricorda nulla perchè, in realtà, non ha visto nulla. Troppa era l’attenzione verso il tablet e la giusta inquadratura, un’attenzione maniacale, quasi come se quell’oggetto fosse lui stesso o, meglio, qualcosa di più importante ancora. Già, proprio così, si era ridotto ad essere un supporto di un oggetto, uno scalino o un treppiedi la cui unica importanza è permettere di vedere meglio a qualcuno o qualcosa d’altro. Se Luca non gli avesse fatto quelle domande, non si sarebbe nemmeno accorto di non aver visto e sentito nulla. Il mezzo, il video, è l’unica cosa importante. Il contenuto, il concerto, al suo confronto perde ogni importanza. Sono dunque filmo, pensa ora Luca.

Il tablet non carica, la gamba sinistra freme con sempre maggiore insistenza nel tentativo di scaricare il nervosismo. E’ l’unico download che funziona davvero.

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Digitare la stazione di destinazione.

 

Brescia. B R E S….. B R E…. BR….. B…..

 

S. Giovanni

 

Destinazione scelta S. Giovanni. Inserire 5,80 euro.

 

Toh

 

Ritirare il biglietto. Arrivederci e grazie.

 

Giacomo non si sveglia mai alla stessa ora e non si reca mai per due giorni consecutivi nello stesso luogo. Bologna, Milano, Brescia, ma anche paesi meno noti. Giacomo è giovane, ma ha già esperienza e i capi si fidano di lui. Lavora in agenzia da cinque anni, era fresco di laurea quando cominciò. Basta una mail, un indirizzo e una spiegazione sbrigativa sul da farsi. Giacomo sa gestirsi, non c’è bisogno di controllare.

E tutti, proprio tutti, in agenzia sono pronti a giurare che Giacomo ama il suo lavoro, anzi, quante volte, davanti alla macchinetta del caffè, gli impiegati si confermano l’un con l’altro che si, Giacomo se la passa proprio bene, guadagna, viaggia e ama il suo lavoro, perché poi, sai bene, si può fare anche i milioni ma se non ti piace il tuo lavoro è una vita di merda.

Si, possiamo dire che a Giacomo il suo lavoro piace. Ma buttarla giù così, come farebbe un impiegato durante un break, è un pochino superficiale. A volte, mentre viaggia sul treno, Giacomo pensa che fino a due anni prima le cose erano differenti. Ogni incarico era più stimolante, ogni viaggio una scoperta, ogni nuova conoscenza un tesoro. Poi tutto cambia e Giacomo si chiede se è l’età o la necessità di stabilizzarsi. Gli altri lo invidiano perché non si alza ogni giorno alla stessa ora e non deve ripetere lo stesso viaggio all’infinito, ma per lui non è così. Non lo dirà mai a nessuno, ma da un po’ di tempo invidia chiunque abbia una vita normale, rimanga imbottigliato nel traffico, sappia dove e cosa farà la settimana successiva. Non è tutto. Ultimamente Giacomo si è trovato a idealizzare una figura in particolare, un uomo che gli capita di vedere spesso, indaffarato nel suo lavoro. C’è un’azienda, a Brescia, dove si reca spesso e per raggiungerla deve attraversare un tratto di campagna con il treno. Qui, in mezzo al verde dei pochi prati e al marrone dei tanti campi arati, vede la sua personalizzazione di normalità. Lo vede mentre il treno si lascia alle spalle la stazione di S. Giovanni ed ha una velocità ancora modesta. Taglia, zappa, raccoglie, muove il trattore, quell’uomo è sempre in movimento. Ogni mattina si sveglia e passa in rassegna le vacche, poi va nel campo. Sempre uguale, ogni giorno, da mattino a sera. Che bucolico idillio. Non può vedere il suo viso, ma poco importa. Quando s’idealizza qualcosa, si finisce per credere che sia veramente così. Insomma, Giacomo si è ormai convinto che sotto quella barba bionda ci sia il sorriso di un giovane lombardo, magari laureato, uno di quelli che ha fatto materie umanistiche e poi non hanno trovato occupazione, oppure un ex manager o semplicemente un impiegato. Uno come lui, cazzo.

E poi arriva un giorno in cui scoppia. Te ne accorgi giorni prima, quando arriva. La sveglia cambia inaspettatamente suoneria e si fa più acuta, lo spazzolino è più pesante, il caffè è sempre freddo, la bottiglia dell’acqua in frigo è vuota. Stanchezza, stanchezza infinita. Provi con i ricostituenti, ma, a parte levare le borse sotto gli occhi, le cose non migliorano. Boom. Eccolo qui, ora, mentre attende il suo biglietto alla biglietteria automatica. Non è stata una scelta facile, basta vedere le facce dei due studenti in coda per capire quanto ha riflettuto.

Giacomo sprizza energia. Si siede, ma non riesce a stare fermo. In lui freme il nuovo, l’adrenalina lo scuote e gli parla, la coscienza è stata usurpata o forse no, forse ora, solamente ora, può esprimersi davvero. E’ così euforico che gli sembra che il treno tremi sotto i suoi movimenti.

S. Giovanni è una stazione minuscola, attorno ad essa un qualche centinaio di case e fattorie. Giacomo percorre una mulattiera costeggiando la ferrovia. Bellissime le pozzanghere, quasi è un peccato doverle evitare, oh, un calabrone, che delicato ronzio. E che dire di quel profumo caldo di fieno che si mescola meravigliosamente a quello acre e pungente del ferro delle traversine?

Eccola. La stalla, la casa, i trattori. Dov’è? Dov’è quell’uomo? Deve parlargli, deve chiedergli come ha avuto tanto coraggio. Può averlo anch’esso? Parlami guru parlami! Eccolo! Giacomo si avvicina.

All’inizio è un’impressione, poi diviene certezza. Niente barba bionda. No. Ora lo distingue benissimo. Quell’uomo è nero. E non sembra nemmeno giovane, a dir il vero non saprebbe quantificarne l’età.

Nessun razzismo, ma la delusione serpeggia nella sua mente. Supponete che nel vostro immaginario il pelide Achille sia biondo e con gli occhi azzurri e un bel giorno vi arriva un artista underground e ve lo rappresenta moro con gli occhi a mandorla, beh, sfido voi a non rimanere interdetti. Giacomo timidamente saluta. L’altro risponde. Giacomo inizia a parlare, fa domande, sebbene non con la grinta che pensava di utilizzare in treno. L’uomo di colore non risponde. Poi lo interrompe e dice “Io no parla bene italiano. Io chiamo Godfred e viene da Senegal.” Giacomo sente la delusione. La combatte, ma sa che presto si approprierà prima del suo corpo togliendogli le forze e poi della sua mente, offuscandone la volontà. Continua a chiedere, ma l’altro non vuole rispondere, è sulla difensiva. Arretra e dice che deve andare. Giacomo capisce, è stato scambiato per un agente o qualche altra cosa. Godfred è clandestino, certamente. Lo chiama. Godfred. Godfred. Non sono qui per disturbarti, scusami, non m’interessa da dove vieni. Ma Godfred deve veramente andare. Si spiega, non vuol essere cafone, ma se il capo lo vede, dirà al caporale di non chiamarlo più e lui non saprà come tirare avanti. E’ una vita dura, dieci anche dodici o tredici ore a volte, ma non può rinunciare a quei 3 euro l’ora. Giacomo si scusa ancora. Lo saluta e se ne va, così, a testa bassa.

E ora eccolo qui, l’uomo del sogno infranto, seduto su una panchina con il corpo proteso in avanti, la ventiquattrore tra le gambe, come la coda di un cane. Se ci avviciniamo, possiamo ascoltarne il dialogo interiore: Che ne pensi Giacomo? Era una piccola follia. Preferirei chiamarla sogno, ma alla fine, di una follia si trattava. Ti dispiace sia finita così? Beh, si mi dispiace. Un po’ ci credevo. Ma era una follia. Non so che mi è capitato.

La campana della stazione di S. Giovanni ha terminato di suonare, il treno è in arrivo. Arriverà a Brescia con un paio d’ore di ritardo. Si scuserà con i clienti, di sicuro avranno già chiamato in agenzia per chiedere ai capi che ne era di lui. Ma quelli non si saranno preoccupati di certo. Giacomo è affidabile. Giacomo risolve tutto. Giacomo non farebbe mai una pazzia.

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