Se capitate nei bar che si susseguono tra Pontremoli ed Aulla lungo la statale della Cisa non vi riuscirà difficile imbattervi in una cartina bidimensionale della Lunigiana (si, esattamente come questa sopra. Ovviamente intendo la parte alta, sotto è Lunigiana per modo di dire). Bene, osservatene le forme e tendete a smussarne le irregolarità, stilizzarne i lineamenti eccessivi: la Lunigiana è una grossa padella. Nella padella versiamo l’olio e vediamo come questo tende a raggrupparsi verso il basso in modo irregolare. Nella val di Magra tutto tende ad andare verso il basso, l’acqua che crea alluvioni, la gente che abbandona le montagne, gli animali selvatici che cercano cibo. Circondata, ovattata, incoronata da catene montuose non certo impervie, ma comunque abbastanza autoritarie da creare un biosistema ordinato e separato, la Lunigiana è stata sempre e solo terra di passaggio. Si dice che vi passò Annibale con i suoi elefanti diretto a Roma, il re Teia con i suoi Visigoti di ritorno dal saccheggio di Roma. Di sicuro ci passò Carlo VIII e almeno lui una traccia la lasciò, un cumulo di macerie fumanti col nome di Pontremoli. Neppure i romani trovarono alcunché di interessante se non strane statue di sasso di personaggi con la testa a mezzaluna capovolta, sproporzionata rispetto al corpo piatto e rettangolare. Decisero di costruire una città vicino al mare, perché loro, eredi della cultura greca, con quei montanari mangia castagne non volevano avere a che fare. L’unico che sembrò avere un’impressione positiva fu Dante, adottato dai Malaspina di Mulazzo, che però sappiamo essere un gran ruffiano, nonché un profugo che non aveva molta scelta se non leccare il mecenate di turno e mandare a porta inferi chi gli stava sulle cosiddette. Ben gliene colse ai Malaspina, che guadagnarono un posto in Purgatorio, non male di quei tempi. Poi un giorno arrivarono il Piemonte e la ferrovia, fecero due calcoli e decisero che era meglio esportare che importare e allora la terra di Luni si svuotò dell’unica materia prima che aveva: le braccia.
Pier Vittorio Tondelli diceva in Autobahn: “L’autobrennero di Carpi, Modena, è l’autobahn più meravigliosa che c’è, perché se ti metti lassù e hai soldi e tempo in una giornata intera e anche meno esci sul mare del nord, diciamo Amsterdam, tutto senza fare una sola curva, entri a Carpi ed esci lassù.” Se avete fatto l’ Autocisa mi darete ragione che questa descrizione con la Lunigiana non centra un fico secco. Qui da una parte c’è Parma e dall’altra c’è Spezia, non la si percorre per ritrovarsi fumati tra lussuriose vetrina, ma per lavorare in prosciuttifici, cantieri navali, o per studiare in quella little Lunigiana che è Parma.
Il lunigianese ha subito tre grandi influenze dalle tre zone confinanti: il carattere chiuso (diciam di merda?) dei liguri, la blasfema volgarità dei toscani e la megalomania degli emiliani. Il lunigianese uccide più cinghiali di te, prende più funghi, ti parla dopo che ti ha visto almeno tre volte e condisce tutto con una smisurata preghiera a Dio e chi per lui. Sono sparsi per il mondo come i napoletani, ma stanno bene tra loro perché riconoscono chi è stato battezzato nel Giordano, che da queste parti prende il nome di Magra.
Buono di cuore, lavoratore, bevitore, il Lunigianese è sempre un po’ critico con la propria terra. Si lamenta che non offre nulla ma è come un cane affezionato al proprio osso striminzito e sporco, che non molla manco per la scapola di un mammuth. Un proverbio popolare dice che Dante lasciò Mulazzo dicendo: “Mulazzo, mulo ti prendo, mulo ti lascio.” Non è vero, è una cattiveria inutile. Al massimo avrebbe spedito tutti all’inferno.
Come Bianciardi paragonò la sua Grosseto al Kansas, anch’io ardisco un paragone. La butto lì: Irlanda. Motivi: svuotata dalla fame, verde, isolata, terra di bevitori che sputano sulla terra dove andranno sotto terra, citando Capossela. Se mancano i santi, la colpa è dei toscani. Per quanto riguarda i suonatori ci stiamo attrezzando: abbiamo Bugelli e Zucchero risiede a Pontremoli. Si lo so, il paragone fatica a reggere, ma io non la sopporto la gente che non sogna. Fuoco alla padella, facciamo schizzare l’olio sulle pareti dei monti, svegliamo quelle teste di sasso dallo sguardo ebete e avvisiamoli che tra qualche mese il mondo finisce, che magari tra l’altro loro ne sanno qualcosa di più perché tra primitivi un po’ ci si intende. Friggiamo dunque il nostro soffritto di cipolle, sagre estive e selvagina e troviamo il coraggio di dire: fai pena ma ti voglio bene lo stesso. Davvero, non potrei fare a meno di te.
Lunigiana, ti amo ma ti odio però.
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