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Posts Tagged ‘Lunigiana’

Non era la prima volta e manco la seconda. Però succedeva quasi sempre di maggio. Quel 11168124_10206500434211296_3140154991112198997_ngran mese di merda di maggio, diceva tra sé Luigi. Ma non ci credeva nemmeno lui e comunque non avrebbe avuto il coraggio di dirlo. Ci sono cose che non si dicono. Non avrebbe mai detto che non esisteva la Madonna, seppure oramai ci credeva poco e non avrebbe mai detto che maggio è un mese di merda. Perché non sono cose che si dicono. O meglio, le dicono solo alcuni, quelli a cui piace trovarsi sempre al di là della barricata e ribaltare il pensiero comune senza motivo e senza ritegno. Ma non lui. Un tempo adorava il maggio. Lo adorava nonostante il fieno da falciare, l’orto da seminare, gli zoccoli del padre da evitare. Poi qualcosa si era incrinato e niente era stato come prima.

Quando gli prendevano quelle giornate amare l’entusiasmo attorno a sé lo infastidiva. Gli pareva quasi che quelle risa e quelle bestemmie e quei colpi sordi di francesini sul balcone dell’osteria facessero parte di una grande orchestra il cui unico scopo fosse tormentargli l’anima, prenderlo per i fondello. Erano giornate in cui non sopportava che gli rivolgessero la parola, che non gliela rivolgessero, che gli offrissero da bere, che lo escludessero dal giro di bevute, che giocassero a carte, che non le estrassero nemmeno dalla busta. Poi finalmente si decideva a rompere l’incanto e prendeva le scale dell’osteria senza dire nulla a nessuno. (altro…)

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1- Slontcha!
C’è una zona a Dublino in cui di giorno troverete famigliole anglosassoni, scandinave, celtiche e mediterranee ivi

Guinness for strength

Guinness for strength

portate dalla Lonely Planet impugnata dal maschio adulto. E’ gente di passaggio, Temple bar non è il loro habitat. Danno un’occhiata alle ragazzine urlanti, padri e figli ammiccano, madri e figlie invidiano. Poi proseguono altrove, verso un turismo di spiegazioni più sostenibili da affibbiare alla prole, verso una Dublino meno rozza e impresentabile.
Ma a parte l’imbarazzo di alcuni, al giorno Temple bar non è niente di che, una sorta di Ibiza del freddo, vento e pioggia. Quando calano le tenebre e ad ogni rintocco delle campane una percentuale sempre maggiore di persone rispettabili rientra nelle proprie stanze, questo quadrato di pub nel cuore di Dublino si trasforma mano a mano in un girone dell’inferno di gente putrida, imbevuta di birre nere e whisky gialli, incapace di programmare la giornata successiva e, alcuni, la vita stessa. O forse no, magari è una composita formazione in cerca di un momento di evasione e poi eccoli pronti a lasciare peti intrisi di luppolo e cibo di strada sull’aereo che li riporta alle quotidiane incombenze.

E l’orario si è fatto serio, quasi il sole si dice pronto ad accarezzare il famoso cielo d’Irlanda con i suoi raggi, quando all’angolo di uno di questi pub un personaggio poco e nulla celtico attende non si sa chi né cosa. Ha un berretto e una sciarpa turisticamente irlandesi, un occhio spento e l’altro sbilenco, una birra nella mano destra e una speranza, seppur fievole, di importunare ancora turiste con il suo approssimativo inglese. Quand’ecco che una zingarella anch’essa munita di bicchiere, ma contenente denaro e non liquido inebriante, gli si accosta garbatamente sulla sinistra. Il nostro ha lo sguardo fisso verso il nulla, la mente leggera e la mano avvezza al brindisi. Intravede solamente un bicchiere e non fa caso al contenuto, all’inequivocabile foulard sulla testa della Signora. Una sola cosa gli pare possibile in questo momento: che qualcuno gli richieda l’ennesimo brindisi della serata. “Slontcha!” pronuncia senza convinzione. E la zingarella ascolta il tintinnare delle monete nel suo bicchiere e si dice che no, nemmeno Temple bar è quella di una volta. Vecchia sporca Dublino. (altro…)

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Se capitate nei bar che si susseguono tra Pontremoli ed Aulla lungo la statale della Cisa non vi riuscirà difficile imbattervi in una cartina bidimensionale della Lunigiana (si, esattamente come questa sopra. Ovviamente intendo la parte alta, sotto è Lunigiana per modo di dire). Bene, osservatene le forme e tendete a smussarne le irregolarità, stilizzarne i lineamenti eccessivi: la Lunigiana è una grossa padella. Nella padella versiamo l’olio e vediamo come questo tende a raggrupparsi verso il basso in modo irregolare. Nella val di Magra tutto tende ad andare verso il basso, l’acqua che crea alluvioni, la gente che abbandona le montagne, gli animali selvatici che cercano cibo. Circondata, ovattata, incoronata da catene montuose non certo impervie, ma comunque abbastanza autoritarie da creare un biosistema ordinato e separato, la Lunigiana è stata sempre e solo terra di passaggio. Si dice che vi passò Annibale con i suoi elefanti diretto a Roma, il re Teia con i suoi Visigoti di ritorno dal saccheggio di Roma. Di sicuro ci passò Carlo VIII e almeno lui una traccia la lasciò, un cumulo di macerie fumanti col nome di Pontremoli. Neppure i romani trovarono alcunché di interessante se non strane statue di sasso di personaggi con la testa a mezzaluna capovolta, sproporzionata rispetto al corpo piatto e rettangolare. Decisero di costruire una città vicino al mare, perché loro, eredi della cultura greca, con quei montanari mangia castagne non volevano avere a che fare. L’unico che sembrò avere un’impressione positiva fu Dante, adottato dai Malaspina di Mulazzo, che però sappiamo essere un gran ruffiano, nonché un profugo che non aveva molta scelta se non leccare il mecenate di turno e mandare a porta inferi chi gli stava sulle cosiddette. Ben gliene colse ai Malaspina, che guadagnarono un posto in Purgatorio, non male di quei tempi. Poi un giorno arrivarono il Piemonte e la ferrovia, fecero due calcoli e decisero che era meglio esportare che importare e allora la terra di Luni si svuotò dell’unica materia prima che aveva: le braccia.

Pier Vittorio Tondelli diceva in Autobahn: “L’autobrennero di Carpi, Modena, è l’autobahn più meravigliosa che c’è, perché se ti metti lassù e hai soldi e tempo in una giornata intera e anche meno esci sul mare del nord, diciamo Amsterdam, tutto senza fare una sola curva, entri a Carpi ed esci lassù.” Se avete fatto l’ Autocisa mi darete ragione che questa descrizione con la Lunigiana non centra un fico secco. Qui da una parte c’è Parma e dall’altra c’è Spezia, non la si percorre per ritrovarsi fumati tra lussuriose vetrina, ma per lavorare in prosciuttifici, cantieri navali, o per studiare in quella little Lunigiana che è Parma.

Il lunigianese ha subito tre grandi influenze dalle tre zone confinanti: il carattere chiuso (diciam di merda?) dei liguri, la blasfema volgarità dei toscani e la megalomania degli emiliani. Il lunigianese uccide più cinghiali di te, prende più funghi, ti parla dopo che ti ha visto almeno tre volte e condisce tutto con una smisurata preghiera a Dio e chi per lui. Sono sparsi per il mondo come i napoletani, ma stanno bene tra loro perché riconoscono chi è stato battezzato nel Giordano, che da queste parti prende il nome di Magra.

Buono di cuore, lavoratore, bevitore, il Lunigianese è sempre  un po’ critico con la propria terra. Si lamenta che non offre nulla ma è come un cane affezionato al proprio osso striminzito e sporco, che non molla manco per la scapola di un mammuth. Un proverbio popolare dice che Dante lasciò Mulazzo dicendo: “Mulazzo, mulo ti prendo, mulo ti lascio.” Non è vero, è una cattiveria inutile. Al massimo avrebbe spedito tutti all’inferno.

Come Bianciardi paragonò la sua Grosseto al Kansas, anch’io ardisco un paragone. La butto lì: Irlanda. Motivi: svuotata dalla fame, verde, isolata, terra di bevitori che sputano sulla terra dove andranno sotto terra, citando Capossela. Se mancano i santi, la colpa è dei toscani. Per quanto riguarda i suonatori ci stiamo attrezzando: abbiamo Bugelli e Zucchero risiede a Pontremoli. Si lo so, il paragone fatica a reggere, ma  io non la sopporto la gente che non sogna. Fuoco alla padella, facciamo schizzare l’olio sulle pareti dei monti, svegliamo quelle teste di sasso dallo sguardo ebete e avvisiamoli che tra qualche mese il mondo finisce, che magari tra l’altro loro ne sanno qualcosa di più perché tra primitivi un po’ ci si intende. Friggiamo dunque il nostro soffritto di cipolle, sagre estive e selvagina e troviamo il coraggio di dire: fai pena ma ti voglio bene lo stesso. Davvero, non potrei fare a meno di te.

Lunigiana, ti amo ma ti odio però.

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