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Posts Tagged ‘racconto’

“B&B Dissolvenza” è una locanda immaginaria creata da me e il mio amico fotografo Franco Beccari (altri meravigliosi scatti di Franco li potete trovare nel suo profilo flickr) dove una narrazione accompagnata da una fotografia progressivamente scomparirà, lasciando a l’ospite il compito di immaginare l’antefatto e il prosieguo. Questa la quarta puntata.

Matteo

Quando ero in carne e ossa e avevo un castello a ripararmi da pioggia, acqua, vento e feci mi trovavo spesso a pensare al momento della mia dipartita. Al giorno d’oggi in codeste contrade si è perso l’uso della spada e pure delle moderne diavolerie atte a macellare cristiani e infedeli non mi pare di notare che sporadiche apparizioni da molti decenni a questa parte. Ai miei tempi, però, l’arma la si teneva in pugno ben più spesso del membro e quindi non era insolito, tra un assedio e una schermaglia, riflettere sull’ora tremenda. E visto che son morto assai vecchio per la moda del tempo, ho avuto molte lune per meditare il mio trapasso. Gli ultimi anni della mia vita, quando oramai l’armatura pareva un macigno e i figli mi avevano accantonato su un trono per potersi liberamente scannare tra loro, questi pensieri si erano fatti insistenti. Per tutta la vita avevo creduto che una alabarda piuttosto che un dardo avrebbero consegnato la mia gloria al buon Dio. Allora pensavo come i miei cavalieri avessero celebrato la dipartita del lor signore, come i nemici reso omaggio a cotanto avversario, come le damigelle innamorate si sarebbero prostrate lacrimanti nell’ora dell’addio al viril guerriero morto in eroiche circostanze.  Invece volle il destino che la mia barba si facesse bianca, le mie membra anchilosate e la mia mente libera da campi di battaglia. Al mio trono si prostravano leccapiedi di cui mi interessava assai poco e tanto meno mi pareva d’uopo immaginare come avessero reagito alla morte di quello che era oramai soltanto un vecchio. L’età longeva avrebbe annacquato la solennità della mia dipartita. Un vecchio che muore, per quanto Re ed eroe è pur sempre un vecchio, e la gente non piange o finge di piangere. E non si ferma nemmeno a ricordare, perché ha negli occhi la pelle raggrinzita, il capo canuto e il puzzo di merda e di piscio e non l’elmo e lo scudo che lo resero celebre anni addietro. Ci se ne fa una ragione. Era vecchio, si dirà. Fu allora che iniziai a pensare a qualcosa che rimanesse ben oltre quella che si prospettava una scialba cerimonia di commiato. Nessuno si sarebbe dimenticato di me se un gigante di pietra gli avesse ricordato le gesta nei secoli dei secoli. Gli ultimi giorni a codesto mondo li passai ad immaginare la mia scultorea figura. Volli che rappresentasse un guerriero sicuro e imponente e volli pure che non fosse sola, per dimostrare che non ero un lupo solitario come negli ultimi anni di vita potrebbe esser parso. Solamente chi ha lasciato traccia di sé in vita ha una statua a ricordarne le gesta. Ritrovai l’entusiasmo dei tempi andati e dolce mi fu il trapasso. La consapevolezza di aver raggiunto la massima onoreficenza possibile, una statua, mi ha accompagnato per tempo immemore, almeno fino al vostro pazzo secolo. D’un tratto la gente pare aver perso memoria dei tempi che furono e sovente mi capita di sentire la vostra gioventù domandarsi chi fosse stato questo altero uomo di pietra. Uno dei tanti ad avere una statua, risponde qualcuno. Una statua, oramai, pare non la si neghi a nessuno. Che poi la mia sia la più bella e l’unica davvero motivata, ha poca importanza. Ma se chiedi a quelle genti di ogni razza e regno che passano senza degnarmi di sguardo alcuno cosa renda l’uomo davvero degno ai posteri, questi ti diranno l’aeroporto. Il più importante si prende il nome dell’aeroporto. Fossi ancora il guerriero che fui scoccherei un dardo per ognuno di quei grifoni metallici che vedo fendere l’orizzonte ad ogni ora del dì e della notte. Ma le mie membra sono di pietra e i miei pensieri non si fanno parola. Tanta è la rabbia verso le vostre irriconoscenti menti che ho deciso di volgervi la schiena e pure il culo. Una cosa non avevo capito quand’ero ancora in carne ed ossa e avevo un castello a ripararmi da pioggia, acqua, vento e feci: l’eternità è mutevole. Come la vita.

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“B&B Dissolvenza” è una locanda immaginaria creata da me e il mio amico fotografo Franco Beccari (altri meravigliosi scatti di Franco li potete trovare nel suo profilo flickr) dove una narrazione accompagnata da una fotografia progressivamente scomparirà, lasciando a l’ospite il compito di immaginare l’antefatto e il prosieguo. Questa la terza puntata.

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Ti avevo chiesto un posto lontano da orecchie indiscrete. Ti avevo chiesto che non ci fosse nessuno. Ti avevo chiesto di presentarti puntuale. Ti avevo chiesto un punto preciso. Niente. Non ne hai centrata una. E’ passata mezzora dall’orario prestabilito e io mi ritrovo a vagare tra navate, absidi e colonne alte come alberi e dovresti sentire che frastuono fanno i passi in un luogo dove puoi ascoltare a metri di distanza le preghiere sibilate da beghine assorte nella trascendentale ammirazione della Vergine Maria. E quel giovane pretino, che pare giunto da chissà quale amena provincia, che mi squadra con occhi che paiono voler lacerare ben oltre la carne. Sbatte il portone d’ingresso e oscure figure di uomini e donne si perdono tra i chiaroscuri e le infinite prospettive. Alcuni di loro appaiono nelle fessure che la pietra concede tra le altre navate per poi scomparire e ricomparire ancora. I loro passi sono cadenzati, ritmati sulle litanie delle beghine. Le loro movenze non sobillano lo sguardo del pretino di provincia. Solamente delle mie suole si percepisce l’eco, solamente il mio portamento provoca sdegno agli astanti, solamente il mio corpo è lambito dalla luce ovunque vada. Sono una presenza ingombrante, fuori luogo. Ti avevo chiesto di perdonarmi, ti avrei spiegato tutto, volevo solamente raccontarti la mia versione, presentarti le mie scuse. Tu tacevi, io volevo solamente dimostrare il mio pentimento. Allora mi hai indicato questo posto. Tu ci sarai? Ancora silenzio. (altro…)

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“B&B Dissolvenza” è una locanda immaginaria creata da me e il mio amico fotografo Franco Beccari (altri meravigliosi scatti di Franco li potete trovare nel suo profilo flickr) dove una narrazione accompagnata da una fotografia progressivamente scomparirà, lasciando a l’ospite il compito di immaginare l’antefatto e il prosieguo. Questa la seconda puntata.

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Se tende il corpo a destra, è verso destra che tenterà di fuggire. Allora vedrai il corpo flettere e i suoi occhi vacui ti fisseranno e tenteranno di convincerti del contrario. Ovvero che attenderà lì, dove l’hai scovato, il colpo fatale. Senza reagire al destino. Ti sembrerà di vederti riflesso nei suoi occhi e quell’attimo ti sarà fatale. La sua mente raccoglierà alla causa ogni singola fibra muscolare e al momento opportuno, quando il tuo respiro si sarà oramai fermato e la corda sarà tesa fino all’orecchio sinistro e oltre, sguscerà via e il sasso andrà a sfiorare tutt’al più la coda. Allora quegl’occhi non ti sembreranno più così vacui e non avrai più dove specchiarti e i tendini liberati dalla tensione inizieranno a dolerti e con essi lo stomaco. Non al centro, non è lì che devi mirare, ma là dove tendono le gambe e il corpo. E in definitiva: la mente.
Questo gli avevano insegnato e questo pensava ora, mentre il laccio teso gli faceva vibrare il polso e le dita iniziavano ad allentare la presa sul sasso. Così tirava alla fionda suo padre, così cacciava suo nonno, così uccideva suo bisnonno e così a tutti aveva insegnato il trisnonno. Si caccia con il corpo, si uccide con la testa. Il cacciatore legge la paura, interpreta la paura, dirige la paura. Ci sono animali che hanno solamente la paura a difenderli dal mondo esterno. E’ una paura intelligente che non scade mai nel panico. La paura può essere salvifica se non hai altra difesa e se davanti a te c’è una fionda e una mano salda a tendere il dardo fatale.
Aveva ragione mio padre, mio nonno, mio bisnonno. Pure mio trisnonno. Nel momento della caccia si racchiude l’esistenza, pensò. Che non è una strada diritta e non è manco una strada curva. E’ una strada con infinite traverse e quando la diritta via è impraticabile, tocca voltare a destra e sinistra. E pensò che anche a quell’essere che aveva davanti qualcuno aveva insegnato come comportarsi. Fu allora che vide quel piccolo corpo tendere a destra. Guardò a destra anch’egli con l’occhio sinistro, quasi a preparare la mira. L’avrebbe colpito? Probabilmente si. Ma era davvero questo il fine ultimo di quella caccia? No, si disse mentre ormai le dita liberavano la presa sul sasso. No, il fine ultimo è divenire uomo. La differenza tra uomo e ragazzo sta tutta lì: il ragazzo assorbe, l’uomo rielabora. Quello che gli avevano insegnato era una strada diritta, ma di vie traverse non gli aveva detto mai nessuno. Ora stava a lui dimostrare dove stavano quelle strade. E così scagliò il sasso a sinistra dell’animale.

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“B&B Dissolvenza” è una locanda immaginaria creata da me e il mio amico fotografo Franco Beccari (altri meravigliosi scatti di Franco li potete trovare nel suo profilo flickr) dove una narrazione accompagnata da una fotografia progressivamente scomparirà, lasciando all’ospite il compito di immaginare l’antefatto e il prosieguo. Questa la prima puntata.

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Il posto era quello. Il molo di mezzo, aveva più volte ripetuto a sé stesso. E sempre aveva aggiunto: l’unico con la lanterna in funzione. Non era cambiato nulla da allora. Né il molo, né il delicato sciabordio delle onde su esso. E la lanterna, il piccolo faro, come lo avevano chiamato loro, raggiante come in quel giorno lontano in cui tutto era iniziato. E la bicicletta, la stessa di allora, e il ciclista, ovvero lui, e la canna da pesca che poi altro non fu cheesca e nemmeno di preciso sapeva come si usasse, lui, una canna da pesca. Aveva ritrovato la canottiera indossata allora, rispolverato i calzoncini, gli stessi identici calzoncini beige e calzato le scarpe, ormai lise, di quella serata. No, non tutto era identico a quella sera. Mancava qualcosa, qualcuno. In quel mare scuro di cui si indovinavano onde placide e si percepiva soltanto l’odore salmastro che percorrendo la pelle arrivava alle narici doveva essere finito l’incanto di quello che fu. Questo faro minuto, gli aveva detto allora, e i suoi raggi hanno portato l’incanto a veleggiare fino a noi. Noi, sublime parola. Ecco, l’incanto del noi. Laggiù, doveva essere intrappolato, incagliato tra gli scogli. Si, l’incanto del giorno in cui tutto ebbe inizio doveva essere tornato alle origini e lì lui lo avrebbe stanato con la canna da pesca, che come allora era soprattutto esca. E quando il filo strattonò e lui stesso fletté assieme alla canna e tutto, perfino il faro e perfino i copertoni della bicicletta, gridava all’incanto! all’incanto! gli parve di averlo afferrato. Tutto tornerà, si disse. Ma dal mare scuro e sonnacchioso poté trarre solamente un orrido serpe che si dimenava in diabolici vortici lasciando una scia di acqua e disperazione sul molo. Che cosa immonda è il passato, pensò. Tutto era come allora. Ma l’incanto si era tramutato in serpe. E l’inesorabile salmastro aveva sgretolato tutto.

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La sera antecedente la sua esecuzione F.L. se ne stava con le gambe distese sul pagliericcio della cella e gli fuga-magritteavambracci appoggiati in modo tale da tenere schiena e testa sollevati dal giaciglio. La stanza misurava pochi metri di lunghezza per un paio di metri di larghezza e il mondo esterno non era che un quadratino di pochi centimetri da cui una luce fredda fendeva quel microcosmo e il suo pulviscolo per il lungo fino a scagliarsi contro la piccola e fredda porta di metallo. Nelle ore in cui si faceva più intenso, quell’alito di luce permetteva a F.L. di percorrere con lo sguardo le rughe del muro scrostato, o forse mai intonacato, della cella. Negli ultimi giorni questa era stata la sua unica occupazione. F.L. si sdraiava sulla branda situata sul lato sinistro del muro, individuava un solco di suo piacimento e con l’indice della mano destra ne seguiva le bizzose traiettorie anche là dove la luce non gli permetteva di arrivare con lo sguardo. Era proprio dove l’immaginazione sostituiva l’osservazione che quelle linee prendevano forma. A poco a poco si distingueva un naso, una bocca, un mento e più quelle linee venivano calcate dall’indice di F.L. e più egli poteva riconoscere i lineamenti di uomini e donne, a lui noti, che pochi giorni dopo lo avrebbero visto esalare l’ultimo respiro davanti ad un plotone d’esecuzione. (altro…)

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1- Slontcha!
C’è una zona a Dublino in cui di giorno troverete famigliole anglosassoni, scandinave, celtiche e mediterranee ivi

Guinness for strength

Guinness for strength

portate dalla Lonely Planet impugnata dal maschio adulto. E’ gente di passaggio, Temple bar non è il loro habitat. Danno un’occhiata alle ragazzine urlanti, padri e figli ammiccano, madri e figlie invidiano. Poi proseguono altrove, verso un turismo di spiegazioni più sostenibili da affibbiare alla prole, verso una Dublino meno rozza e impresentabile.
Ma a parte l’imbarazzo di alcuni, al giorno Temple bar non è niente di che, una sorta di Ibiza del freddo, vento e pioggia. Quando calano le tenebre e ad ogni rintocco delle campane una percentuale sempre maggiore di persone rispettabili rientra nelle proprie stanze, questo quadrato di pub nel cuore di Dublino si trasforma mano a mano in un girone dell’inferno di gente putrida, imbevuta di birre nere e whisky gialli, incapace di programmare la giornata successiva e, alcuni, la vita stessa. O forse no, magari è una composita formazione in cerca di un momento di evasione e poi eccoli pronti a lasciare peti intrisi di luppolo e cibo di strada sull’aereo che li riporta alle quotidiane incombenze.

E l’orario si è fatto serio, quasi il sole si dice pronto ad accarezzare il famoso cielo d’Irlanda con i suoi raggi, quando all’angolo di uno di questi pub un personaggio poco e nulla celtico attende non si sa chi né cosa. Ha un berretto e una sciarpa turisticamente irlandesi, un occhio spento e l’altro sbilenco, una birra nella mano destra e una speranza, seppur fievole, di importunare ancora turiste con il suo approssimativo inglese. Quand’ecco che una zingarella anch’essa munita di bicchiere, ma contenente denaro e non liquido inebriante, gli si accosta garbatamente sulla sinistra. Il nostro ha lo sguardo fisso verso il nulla, la mente leggera e la mano avvezza al brindisi. Intravede solamente un bicchiere e non fa caso al contenuto, all’inequivocabile foulard sulla testa della Signora. Una sola cosa gli pare possibile in questo momento: che qualcuno gli richieda l’ennesimo brindisi della serata. “Slontcha!” pronuncia senza convinzione. E la zingarella ascolta il tintinnare delle monete nel suo bicchiere e si dice che no, nemmeno Temple bar è quella di una volta. Vecchia sporca Dublino. (altro…)

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Gettoni

Ieri ho lavato la mia auto per la prima volta. Evitate facili sarcasmi: ce l’ho da un paio di settimane. E se poi mi diretegett che voi la vostra auto l’avete lavata dopo tre giorni dall’acquisto ribatterò dicendo che il web è sconfinato e tra una reclame di autolavaggio e uno sconto per pulizia d’interni su Groupon troverete sicuramente il blog giusto per voi, cari perfettini.
Dicevo, ieri ho lavato la mia auto per la prima volta. Non solo: essendo in vena di prime volte ho voluto sperimentare il lavaggio automatico, ovvero fai da te. Però, e qui viene il difficile, senza quei rulloni che non ho mai deciso se paragonare alle colonne d’ercole o al fondo schiena piumato di una qualche ballerina del carnevale carioca. Per farvela breve, ho inserito i miei gettoni e via che sono partito con il fucile ad acqua compressa. (altro…)

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Alla vecchia gatta debbo tutto, non c’è che dire. Ero un errore, il primo della speciale graduatoria degli incapaci che ogni consorzio non particolarmente civile, quello dei felini in primis, decide di sacrificare senza troppi rimorsi. Filomena, questo il nome della vecchia gatta, nel corso dei suoi dodici anni di vita aveva messo al mondo trentaquattro gatti: nove finirono annegati in una bacinella d’acqua, a dieci fu imposto il supplizio di Icaro (però non sono a conoscenza se Icaro fosse in effetti morto subito o, come alcuni di quegli sfortunati, dopo alcuni minuti), sei furono annientati da un amante focoso che voleva le mammelle di Filomena solo per sé, quattro non superarono la prima notte di vita, uno finì sotto la ruota di un’auto ancora in giovine età, mentre dei quattro rimanenti non ho notizia alcuna, se non che lasciarono questo mondo anch’essi in giovane età. Ora, prima che vi strappiate i capelli dal dolore, urliate il vostro disgusto e doniate un giorno del vostro calendario al culto della gatta Filomena, vorrei ricordarvi che la condizione del gatto di campagna è assai diversa da quella dei pasciuti e devitalizzati mici da appartamento. E poi vi darò ragione se direte che anche in campagna le cose sono cambiate, che avete notizia di gatti castrati e deformi che pur abitando in paesi senza connessione ADSL non hanno mai inseguito una lucertola. Un paio dei miei fratelli finirono a quella maniera. Ma nella vecchia casa di Borgo Rosso dove vidi la luce le lancette hanno sempre avuto un moto differente, più lento, quasi che ogni tanto si perdessero qualche tac. Dovreste averla vista, la vecchia Wanda, un generale di donna ormai da tempo abituata a gestire la casa senza marito, deceduto anni prima. Piglio risolutivo, poco propenso a facili tenerezze. Del resto, quella donna aveva avuto una vita non meno semplice di una gatta Filomena qualunque. Ed anzi, posso dire che tra le due femmine vigeva un accordo cameratesco, privo di quelle sdolcinatezze che a molti di voi hanno fottuto il cervello, ma non per questo privo di passioni. Quando Filomena fu in procinto di morire ricordo che la vecchia Wanda gli sedette accanto e, forse per la prima volta, gli accarezzò il ventre, a suo parere l’origine del male che la stava logorando. Allora ero un giovanissimo gatto, non avevo ancora compiuto il mio primo anno di vita e tutto mi sorprendeva. Quando si è giovani si pensa che il mondo sia così, punto e basta. E chi ci ha cresciuto, chi ha riparato ai nostri danni, sembra invincibile. Poi, un bel giorno, saluta e se ne va. E tutto ciò è troppo grande, troppo rumoroso. Soffrivo, sebbene di preciso non sapevo che significasse. Mi sentivo tradito: la gatta che contro ogni legge della natura aveva scelto di farmi sopravvivere ora se ne andava, mi lasciava solo. Non dimenticai mai le parole di Wanda: “E così mi lasci anche tu”. Con la saggezza di una vecchia contadina aveva condensato in poche sillabe tutto ciò che mi frullava in testa. Lo ripetei più volte, miagolando. Ma Filomena non poteva più sentire. Spirò poche ore dopo e Wanda gli donò una sepoltura da lei ritenuta “di gran lusso”. E quando pronunciava queste parole gli occhi vitrei si coprivano di lacrime. Era primavera e il sole preannunciava un’estate calda. Presto le grida di Simone e Giulia sarebbero state una colonna sonora quotidiana. Ma lungo tutto l’inverno nella casa di Borgo Rosso c’eravamo stati solo io,  Wanda e Filomena. E ora Filomena era sepolta sotto i nostri piedi/zampe. In suo onore sul cumulo erano adagiate un tris di margherite con il gambo intrecciato, mentre un bastone piantato in mezzo alla terra ricordava a tutti il luogo di sepoltura della povera Filomena, madre acquisita di Coda storta, il meno sano dei suoi figli e, per assurdo, l’unico che sarebbe sopravvissuto oltre la giovinezza. Il giorno dopo le margherite sarebbero state spazzate dal vento, mentre il bastone, divelto dalla stessa Wanda, sarebbe finito nella stufa, insieme al ricordo della gatta che mi fu nutrice. Un paio di mesi più tardi qualche cane rognoso avrebbe banchettato con le spoglia ossute di Filomena. Ma in quel momento ero triste, immensamente triste. Mi accucciai accanto ad un piede di Wanda. Avrei voluto sparire. Proprio come quella volta che mi accorsi che non era mia madre ad allattarmi, bensì Filomena. Wanda si chinò e mi concesse una carezza. Veloce, sgraziata. La prima e unica che ricevetti da lei.
A proposito di mia madre. Quella sgualdrina aveva odorato la primavera prima di tutti e già rotolava la schiena lanciando gemiti da far rabbrividire il più scafato dei gatti. Provavo un grande rancore. Talvolta cercavo la sua attenzione, non posso negarlo. Ma quella aveva in mente altre cose. Del resto pure quei babbei dei miei fratelli, dopo un primo svezzamento, avevano ricevuto sempre meno attenzioni. Tra loro ce n’era uno, ora non ricordo nemmeno se gli avessero assegnato un nome, che comandava la ciurma. La sua leadership era dovuta alle dimensioni delle zampe più che ad un innato carisma. Se avesse avuto anche un cervello, oltre che un fisico sproporzionato, non saprei. Ma dubito. Era violento, rissoso, arrogante, vendicativo, un vero e proprio bullo che scambiava i suoi simili per pungiball da riempire di ceffoni. Io ero il suo preferito. Come pungiball, intendo. Mi chiamava bastardo, mi diceva vieni qua rospo, zoppo, guercio e io scappavo ma quello aveva gambe migliori e puntualmente mi raggiungeva prima che io raggiungessi Filomena. E giù botte. Così, senza un preciso motivo. Il tutto aveva fine quando Filomena, allarmata dai miei lamenti, arrivava in mia difesa. Con la morte della mia madre adottiva la mia esistenza era diventata un vero e proprio inferno. Mi rifugiavo in Wanda, ne seguivo ogni passo. Ma in casa non mi era permesso entrare e la notte portava sempre rogne. Ma non durò a lungo.
Era un sabato di giugno. Da un paio di settimane avevo preso l’abitudine di nascondermi in un anfratto tra la nostra casa e la piccola cascina dove ero nato. Era poco più che una fessura. Non vi batteva la luce del sole e il nascondiglio era perfezionato da una serie di oggetti ivi incastonati e abbandonati da tempo imprecisato. Wanda non gettava nulla. Nessuno a Borgo Rosso gettava nulla. E’ peccato, dicevano. E riempivano ogni spazio disponibile di cianfrusaglie. Quelle cianfrusaglie erano la mia salvezza. Non sapevo quanto sarebbe durata, ma non mi importava. Il braccato pensa all’oggi, il domani è solamente un’ipotesi. Ad ogni modo per diversi giorni mi ero reso irreperibile da quell’aguzzino di mio fratello e questo lo aveva mandato su tutte le furie. Acquattato nell’anfratto lo udivo spesso sbraitare il mio nome seguito da elenchi di sevizie inenarrabili che avrebbe recapitato sul mio povero corpo non appena lo avesse avuto tra le zampe. Ogni giorno aggiungeva qualche tortura e il tono si faceva sempre più veemente. Ero sicuro che sarebbe stato capace di fare ciò che prometteva e forse anche peggio. Era un mostro incontrollabile. Chiunque avesse visto i trattamenti riservati a lucertole e passerotti ne era rimasto inorridito. Quel giorno, come ogni sabato, Wanda si era recata al cimitero dal marito. Io, che per questione di sopravvivenza avevo memorizzato tutte le sue abitudini, mi ero già rifugiato nel mio nascondiglio. Devo dire che quando Wanda era a casa preferivo la sua protezione, più che sicura, alla fessura tra la casa e la cascina. La notte e quei rari momenti in cui si assentava, invece, sgattaiolavo (è il caso di dirlo) nel mio anfratto nascosto. Quanti danni arreca l’eccesso di sicurezza! Mi assopii e come mio solito ebbi un sonno breve ma turbolento. Devo aver dimenato le zampe, scalciato scatole metalliche del secolo antecedente, rivitalizzato catene arrugginite di buoi ancestrali, insomma fatto un gran casino. Quando ripresi coscienza vidi un gatto all’entrata dell’anfratto. La base del corpo rimaneva fuori, ma la testa e le spalle erano protese verso il buio del nascondiglio. Se ne stava lì così, da quanto non saprei dire, e mi fissava. Sentii lo stomaco farsi tutt’uno con i polmoni. Non riuscivo a riconoscerlo, indovinavo dalla stazza che doveva avere per lo più la mia età.
“Guarda un po’ chi c’è qui” disse. Riconobbi la voce. Era uno dei miei fratelli, ma non il boia. Non dissi nulla. Mi rannicchiai fino a scomparire e lo fissai implorante.
“E’ inutile che ti nascondi, Coda storta. Ti ho riconosciuto.” Il tono era stranamente silenzioso. Questo mi diede coraggio. Forse non aveva intenzioni cattive. A parte il boia, del resto, nessuno dei miei fratelli aveva mai alzato le mani contro di me. O meglio: nessuno lo aveva fatto di sua iniziativa, ma soltanto su richiesta del sadico.
“Ciao.” Fu tutto ciò che fui in grado di dire. Avevo la coda elettrizzata. Quello invece la muoveva sinuosamente.
“Sai che faccio ora, Coda storta?” disse. Lo lasciai continuare. “Ora, caro Coda storta, chiamo nostro fratello”
“No!” dissi scattando sulle zampe. E lo avrei urlato, se il fiato non mi fosse venuto meno.
“E invece si!”
“No! No! Ti prego, ragiona. Ma perché? Perché? Lo sai anche tu come andrà a finire se lo chiami! Ma insomma, ma che ti ho fatto? Ma che vi ho fatto?” E quasi piagnucolai. L’altro per un po’ tacque. Teneva gli occhi fissi su di me e aveva preso a far vorticare la coda. Pensai di averlo impietosito, ma mi sbagliavo.
“Venite! Venite presto!” miagolò con quanta voce aveva.
“No!” risposi con uguale forza. Ero in preda al terrore. Il corpo pronunciato in avanti. “Ascolta, facciamo così: picchiami tu. Si, dai, io non oppongo resistenza. Mi chino e tu mi picchi. Eh? Ti va?” Ma a quello di picchiarmi non interessava proprio. La sua anima servile era proiettata verso il capo. A lui doveva rendere conto, lui doveva compiacere. Continuò a chiamare gli altri. Io lo guardavo, lo imploravo di smettere, ma quello sembrava indiavolato, la faccia contorta in una smorfia indicibile, quasi caricaturale. A breve il mio boia si sarebbe palesato alle sue spalle. Dovevo agire. Se fossi rimasto in quell’anfratto questa storia sarebbe terminata qui. Feci un gran balzo e mi gettai sulla spia. Rotolammo entrambi per una frazione di secondo. Fui il primo a tirarmi su. Ed eccola, ormai a pochi metri da me, la sagoma dell’aguzzino. Ricordo come fosse oggi: il pelo nero, il corpo largo il doppio del mio, gli occhi iniettati di sangue, la bocca contorta. Presi a correre senza una meta, senza un piano di salvataggio. Era la prima volta che correvo per le vie del paese. Svicolavo tra case sconosciute, cambiavo direzione, saltavo tombini. Lo sentivo dietro di me, sentivo le sue zampe sempre più dappresso alle mie. Era più grande, aveva gambe più sane e non essendo un rifugiato come il sottoscritto conosceva le vie di quel borgo a menadito. Se in quel momento avessi pensato a tutto ciò, se la scialuppa di salvataggio non fosse stata pilotata dall’istinto di sopravvivenza, avrei mollato: tanto non c’erano speranze. D’un tratto le case finirono e sotto le zampe mi ritrovai la scarpata ripida che colmava il dislivello tra il paese, abbarbicato su un colle e la strada di sotto. Rotolai giù e quando mi fermai la testa girava come una trottola. Mi ripresi quando l’aguzzino stava per agguantarmi con un balzo, manco a dirlo, felino. Non so come, ma riuscii a scansarlo. Corsi verso la strada asfaltata. Nel mentre passò la corriera.
La cui ruota mi sfiorò la coda.
E prese in pieno mio fratello.
Lo sentii rantolare. Mi avvicinai con la premura che si usa con un mostro, sebbene praticamente morto. Gli occhi saettavano ancora odio. La bocca avrebbe voluto dare fiato a cose orribili, ma sputava solamente sangue. Se ne voleva andare come aveva vissuto quel misero anno. Un essere ignobile.
“Addio” dissi. E mentre mi allontanai aggiunsi: brutta merda. Era la prima volta che sorridevo in vita mia. Avevo su per giù un anno di vita.

 

https://allegriadinubifragi.wordpress.com/2014/08/18/vita-di-coda-storta-gatto-bastardo-cap-1/

VITA DI CODA STORTA, GATTO BASTARDO. Cap. 2

 

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Non so cosa accada a voi bipedi dopo la morte. Se anche lo sapessi, sia chiaro, non ve lo direi. Conosco bene la vostra indole: non aspettereste altro per tirare finalmente i remi in barca e smozzicare qualche parola del tipo “Tanto” “Ah beh, allora” “Bene, a posto così quindi”. E non fate i razionalisti, in fondo, lo so, ci sperate un po’ tutti. Ad ogni modo, niente uscirà da queste labbra feline. Lavorate, pensate e filosofate. Siete così bravi a filosofare, quando volete. Già, quanto avrei voluto essere il gatto di uno di quei filosofi dalla barba folta e incolta. Ma tant’è. Ad ogni modo, posso raccontarvi che ne è di noi gatti quando un’automobile ci sfracella contro il marciapiede, o quando i vostri croccantini chimici ci fanno defecare il fegato e le nostre povere ossa finiscono tumulate sotto un sasso che presto diverrà uno dei pali della porta dove i vostri marmocchi esibiranno le loro mai nate doti calcistiche. Non accade niente di che, a dire il vero. (altro…)

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Della non esaltante nascita di Coda storta.

Venni al mondo tra le imprecazioni di mia madre. Era stato un travaglio penoso: mi avevano preceduto tre gattacci di notevole stazza, tre infami che barattarono la propria intelligenza con la mia prestanza fisica. Non oso immaginare quanto possa avere patito quella sgualdrina di nostra madre. O no, per l’amor del cielo, non tacciatemi dopo appena tre righe di irriconoscenza verso la gatta che mi diede la luce. Se ho l’ardire di appellare mia madre con tale epiteto avrò le mie ragioni, no? E aggiungo: presto vi saranno riferite. Ad ogni modo, io fui lasciato per ultimo, pigiato nell’utero da quei marcantoni che dovrei chiamare fratelli. Avevano fretta gli imbecilli, come se avessero qualcosa da dire al mondo, come se la natura, che tanto gli aveva donato in muscoli e zampe, gli avesse parimenti forniti di un intelletto pronto o di una qualsivoglia attitudine a fare qualcosa che non fosse una razzia o a sverginare gattine di primo pelo, a esprimere un concetto che non fosse “Vattene o t’ammazzo”, “Questa gatta la ingravido io”, “Questa è la mia zona”. E voi umani, inebetiti da letture di Konrad Lorenz e Charles Darwin, atrofizzati da documentari in cui prestanti leoni squartano deboli gazzelle, direte che un gatto pur sempre un felino è e la zampa più lesta, quella più forte e decisa ha sempre la meglio in questo sporco mondo. E io vi dico di no. Chi più visse tra i miei fratelli si godette la metà dei soli estivi che ho goduto io. E mi riferisco a quel futuro castrato, obeso e del tutto rimbecillito che crepò d’infarto accanto ad una stufa in una notte d’inverno. Ma questa è un’altra storia e più avanti, se mi aggrada, ve ne parlerò. Dove eravamo rimasti? Si, certo, il travaglio di mia madre. Uscito il terzo dei miei ignobili fratelli sarebbe finalmente toccato al sottoscritto dire “Ciao mondo!” Ma si da il caso che di quelle stronzate non avevo per niente voglia. Pur costretto sotto il culo dei tre imbecilli, non stavo per niente male nella pancia di mia madre. E poi, ora che quei tre gaglioffi mi avevano liberato dal loro immane peso, davvero mi sembrava di sguazzare in paradiso. Aveva un bel da fare mia madre a contrarre il bacino nel tentativo di spingermi fuori: abituato alle costrizioni di una convivenza forzata di due mesi, quelle timide compressioni mi parevano tutt’al più carezze. Poi non so come e non so perché, quella gattaccia riuscì nel suo intento e mi sparò fuori come un missile. Vidi una gran luce intervallata da ombre che si muovevano in lontananza. Poi un’ombra più grande si appropinquò sopra il mio corpo. Non potevo distinguere molto, ma ero certo si trattasse di mia madre. Ci sono tanti modi per essere accolti nel mondo dei vivi. Diceva il Buddha (si, sono un gatto istruito e ve ne renderò conto) che la nascita è il fondamento della vecchiaia e della morte. Gliene do atto: altrimenti perché si nascerebbe piangendo? Il pianto è il primo contatto con ciò che ci circonderà. Non piangere è sintomo di un problema. Devo approfondire la questione, lo ammetto, ma so per certo che il neonato che non piange ha un qualche problema. Alcuni anni dopo, in casa di un umano, vidi un filmato nel quale una donna dava alla luce un figlio. Costei non piangeva. Allora il dottore lo scosse un poco e il piccolo finalmente provò agli astanti che sapeva anch’esso lagnarsi come un rompicoglioni qualunque. Orbene, mia madre, non vedendomi frignare come un vitello, non per buon cuore ma in quanto, ripeto, sgualdrina, decise che pure io avrei dovuto esordire come tutti gli altri. “Tanto dolore per mettere al mondo una racchia del genere” disse. Grazie mamy, quelle dolci parole le porto ancora nel mio cuore ogni volta ti penso. Non si preoccupò nemmeno di controllare il mio sesso, preferì bollarmi come femminuccia gracile e di brutto aspetto, fondamentalmente destinata a tornare al più presto da dove era venuta. Non male: cartellino rosso dopo dieci secondi dall’esordio. Quelle ombre che vidi guizzare in lontananza si avvicinarono al sottoscritto. Erano umani, ma questo lo capii solamente in un secondo momento. Certo, a loro non voglio dare colpe, in fondo non ero altro che uno dei quattro bastardi figli della gatta bastarda che tutti i maschi bastardi del vicinato ha ospitato sulla groppa. Però, ragazzi miei, che tatto! “Oh mio Dio, ma è un mostriciattolo!” “Questo campa poco, domattina lo troviamo stecchito” “Beh, dopo tre bei gatti come quelli” “Poverino, magari soffre” “Ma che soffre! Nemmeno si accorge di essere venuto al mondo ridotto com’è” “Guarda, ha pure la coda storta” Quintali di ottimismo sulla mia pelle. Beati voi umani. Per voi un neonato è sempre bello. Anni dopo in una delle vostre case vidi il nuovo arrivato di una allegra famigliola: era un bambino talmente brutto, e vi giuro non esagero, ma talmente brutto che non potevo reggere il suo sguardo. “Guarda amore, guarda il gattino!” e mi avvicinavano quello sgorbio pieno di rughe e rosso come quegli stitici che spingi spingi ma non c’è verso e io che chinavo la testa e facevo “Miao” e loro “Senti amore! Lo senti il gattino che ti saluta?” ma il mio non era un saluto, se avessero potuto capire cosa avevo veramente detto mi avrebbero preso a calci in culo e addio pappa delle due del pomeriggio. Per noi gatti, insomma, il buon cuore non è previsto: se sei brutto, gracile, malaticcio e c’hai pure la coda storta devi morire entro la mattina successiva. Punto. E mia madre, eviterò di ripetere l’epiteto per non infastidirvi, invece che credere nel miracolo, invece di fare come il pastore della buona novella che abbandona novantanove pecore per cercarne una smarrita, non si diede nemmeno la briga di ripulirmi da placenta e affini e mi lasciò così, indecoroso, all’appuntamento con la morte. I miei fratelli rimembrarono come quel mezzo aborto del sottoscritto fosse comunque un comodo appoggio per le loro chiappe e una volta sistemati si misero a poppare dalle mammelle come forsennati. Non una goccia per il moribondo dalla coda storta, non sia mai! Così avrei dovuto trascorrere la mia breve esistenza: sporco, schiacciato sotto il culo dei miei fratelli e senza nemmeno assaporare una goccia del latte materno. Sotto quel peso è probabile che sarei morto di lì a poco per asfissia da culi fraterni. Fu la curiosità degli umani a procrastinare la mia dipartita di qualche ora. Ricordo che una mano sollevò uno ad uno quei tre parassiti e disse “Guarda Papà! Poverino… E’ già morto, papà?” Il padre avvicino la mano al mio viso. Era il primo contatto con un umano della mia vita. Toccò da qualche parte nel mio capo, tentò di fare qualcosa che allora non potevo capire, quindi emise il suo responso “Questo disgraziato ha pure un occhio guercio. E’ ancora vivo, ma non ne avrà per molto.” Ecco, pure un occhio guercio mi portavo appresso. E così mi addormentai per quello che avrebbe dovuto essere il primo e unico sonno della mia vita.

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