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Posts Tagged ‘Italia’

Non era la prima volta e manco la seconda. Però succedeva quasi sempre di maggio. Quel 11168124_10206500434211296_3140154991112198997_ngran mese di merda di maggio, diceva tra sé Luigi. Ma non ci credeva nemmeno lui e comunque non avrebbe avuto il coraggio di dirlo. Ci sono cose che non si dicono. Non avrebbe mai detto che non esisteva la Madonna, seppure oramai ci credeva poco e non avrebbe mai detto che maggio è un mese di merda. Perché non sono cose che si dicono. O meglio, le dicono solo alcuni, quelli a cui piace trovarsi sempre al di là della barricata e ribaltare il pensiero comune senza motivo e senza ritegno. Ma non lui. Un tempo adorava il maggio. Lo adorava nonostante il fieno da falciare, l’orto da seminare, gli zoccoli del padre da evitare. Poi qualcosa si era incrinato e niente era stato come prima.

Quando gli prendevano quelle giornate amare l’entusiasmo attorno a sé lo infastidiva. Gli pareva quasi che quelle risa e quelle bestemmie e quei colpi sordi di francesini sul balcone dell’osteria facessero parte di una grande orchestra il cui unico scopo fosse tormentargli l’anima, prenderlo per i fondello. Erano giornate in cui non sopportava che gli rivolgessero la parola, che non gliela rivolgessero, che gli offrissero da bere, che lo escludessero dal giro di bevute, che giocassero a carte, che non le estrassero nemmeno dalla busta. Poi finalmente si decideva a rompere l’incanto e prendeva le scale dell’osteria senza dire nulla a nessuno. (altro…)

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La si potrebbe intitolare “cartolina da Napoli”, ma sarebbe riduttivo. Si rischierebbe, anzi, che la benpensante faciloneria di cui siamo oramai assuefatti ci spinga a classificare la foto alle categorie “Disagio sud” o “Questione meridionale”. In pratica, se abiti al nord la cosa non ti riguarda, se abiti al sud, sbuffi e dici “e che ci vuoi fare? Si sa, qui è così.”

No, questa foto non rappresenta Napoli, rappresenta l’Italia intera. Una terrazza panoramica in zona Posillipo, un belvedere dal quale chissà quanti di noi hanno ammirato il golfo di Napoli. Un punto di osservazione che poggia sulla miseria e la disperazione. La povertà sembra mostrare vergogna, ma anche pudore, non chiede atto di denuncia, preferisce negarsi all’occhio del turista. Non è sua intenzione rovinare le meritate vacanza del piano superiore.

E’ un’immagine che si presta a diverse letture. Essa infatti può rappresentare il passato, la miopia di un paese che non si accorse di quanto e come il mondo stesse cambiando, di come l’orticello fosse sempre più stretto e meno produttivo. Rappresenta anche il presente, un paese che dalla miopia è passato alla cecità e vorrebbe cancellare i propri errori, perché non ha il coraggio di affrontarli.

Oppure, potrebbe rappresentare il futuro, una società gerarchica dove la classe media è distrutta da un neoliberismo che non funziona, anzi, funziona per pochi con il beneplacito di molti e le persone si dividono tra chi sta sopra e non vede e chi sta sotto e non è visto.

Ed infine si può leggere questa cartolina per quello che è veramente: un aborto di hotel, uno dei tanti abusi edilizi sulle nostre coste, fermato dalla magistratura quando, purtroppo, il cemento aveva già fatto presa su un’amministrazione sorniona. Ciò che rimase fu una struttura alveolare, con le stanze già delimitate ma private di un muro perimetrale. Così i turisti si dovettero accontentare di ammirare il golfo da un tetto, invece che dalla finestra di una stanza d’albergo. Chi invece sembrò apprezzare lo scempio edilizio furono i poveracci: tutto sommato quei loculi fornivano una copertura ben migliore che un ponte.

A quanto pare è molto difficile trovare una stanza all’Hotel Disperazione. La povertà non conosce recessione.

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“Ci sono nella vita di una città dei momenti irripetibili, un pò come la fioritura dei ranuncoli di cui vi dicevo sul col Birone, i momenti in cui tutto sembra andare per il verso giusto, per le giuste convergenze. Poi a quel consenso spontaneo sono subentrate le pubbliche relazioni, tutto si è burocratizzato, specializzato, separato, al posto di quella società omogenea ne sono arrivate altre a isole separate, neppure la prima della Scala, neppure la premiazione degli “Ambrogini d’oro” ci riportano a quel momento sociale magico.” (da G. Bocca, “Il provinciale”).

Ogni volta vado a Milano e il treno si insinua tra quei quartieri postbellici penso a quella città degli anni cinquanta e sessanta, ai suoi personaggi, artisti, delinquenti gentiluomini, poveracci, perdigiorno,  terroni con la valigia di cartone, imprenditori che conoscevano la fatica ma non la borsa. C’è chi dice che le migliori menti siano prodotte dai momenti di crisi e portano ad esempio l’Italia del cinquecento uscita dalle terribili guerre d’Italia. E’ vero, ma in parte. Quella Milano in odore di progresso sfornava e recepiva talenti. Un fenomeno non più ripetibile. Si potrebbe controbattere, non a torto che alcune città come New York hanno oggi una grande scena culturale e attirano piccoli e grandi artisti. Non c’è però nulla di spontaneo in questo, si va a New York perchè la ci sono i soldi e i businness di produttori, case discografiche, editrici, l’arte è spesso ridotta a happening ricchi di nomi, ma scarsi di idee. C’è molto di valido nel mondo underground, ma rimane un circuito ristretto e la mentalità imperante del guadagno e basta non ne consente l’emersione. Se domani la città “in”, quella in grado di spendere più soldi e patinare la vita, sarà Mumbai, tutti andranno là. Ma sono i soldi a muovere l’arte, non l’anima delle città e delle persone che le vivono. Quella Milano usciva dalla dittatura e dalla distruzione della guerra. Non aveva più nulla, mancavano case e cibo. Eppure aveva la speranza e il futuro, c’era l’idea condivisa che il peggio fosse passato e ora si poteva finalmente costruire qualcosa di positivo. Non sono i momenti di crisi o di contro, di grande prosperità economica a creare artisti, ma la speranza e le idee rivolte al futuro. Si stava bene quando si stava peggio? Forse. Sicuramente si stava meglio quando era più confortante guardare avanti che indietro.

Gaber e Jannacci furono forse i più bravi cantori di quel grande mondo antico. E’ un modo di vivere e intendere l’arte e la cultura che se ne va, rimpianto, per assurdo, anche da chi non l’ha vissuto. Forse un giorno guarderemo al futuro con più coraggio e speranza e allora avremo altri Strehler, Gaber, Jannacci, Bianciardi, Guttuso e tanti altri perdigiorno non meno importanti. Anzi, ho un momento di sconsiderato ottimismo e mi sembra di intravedere qualcosa…. si mi sembra di aver visto qualcosa….  Sa l’ha vist cus’e`? – Ha visto un re! – Ah, beh; si`, beh. 

 

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Se fossi Woody Allen direi: Dio è morto (who?), l’Italia è a pezzi e io pure peggio di lei. Già, di questi tempi abbiamo molte similitudini io e lo stivale. Lui però, lo stivale intendo, mi ha fregato, i tempi belli se li è goduti quando non c’ero e se c’ero non ragionavo ancora e a me ha lasciato, diciamocelo pure, uno scarpone marcio e disfatto. Macerie nella mia terra, disoccupazione ovunque ed io autoesiliatomi con la superficialità di chi non vuol sapere e non vuole credere che per alcuni l’eldorado non è ancora stato inventato. E magari, con la coda tra le gambe, presto dovrò tornare come un figliol prodigo, ma senza vitelli e banchetti ad attendermi, perchè chi perde non ha diritto ad ovazioni.  Ma c’è qualcosa che non si nega a nessuno, sebbene, come disse Abatantuono in una leggendaria sequenza di gerundi nel film Mediterraneo, chi vive di essa muore sopra un water. Speranza, questa non è dato torglierla a nessun terremoto, a nessun banchiere e a nessun avido, stramaledetto selezionatore di personale. Mi è ritornato alla mente una sequenza di questo bellissimo film, Philadelphia. Il protagonista, malato di aids, sa che dovrà morire a breve e si lascia trasportare dalla voce della Callas nell’opera Andrea Chenier di Giordano, dove ella rappresenta una donna che vede la casa dove era nata e viveva distrutta dalle fiamme. E’ a pezzi, ma dal dolore e dall’angoscia nasce la flebile e incorruttibile fiamma della speranza. Vi lascio godere questa memorabile scena e, per chi abbia avuto la volontà di raggiungere questa riga, scusate per lo sfogo e grazie mille.

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Parlare di curriculum in questo paese è un pò come chiedere udienza al Vescovo per discutere dell’ultimo film porno che avete visto, non ha senso e per di più infastidirete il povero prelato che ben che vada vi caccerà in malo modo. Mi spiego meglio, presentare un curriculum vitae in Italia significa partire con il piede sbagliato: in primis perchè ammettete di non aver conoscenze e di affidare ad un paio di fogli la vostra persona, in secundis (si può dire?) perchè ben poche aziende pagano un laureato in lettere, Dio li stramaledica più della perfida Albione quelli lì, per leggere curriculum e valutare competenze, studi e meriti vari. E già ho fatto un errore, ho parlato di meriti, quando in Italia perfino i Signori Devoto e Oli si dimenticano di inserire tale parola nel loro dizionario.

Bene, ho deciso di aiutarvi, sono un laureato disoccupato e modestamente di porte in faccia, tritacarte, cestini, sorpassi a destra e sinistra e umiliazioni varie me ne intendo. Ciò che voglio proporvi è un curriculum diverso, lontano dall’astrattismo europeo e più attinente alla realtà del nostro meraviglioso paese, un curriculum senza troppi fronzoli e barocchismi, più snello e accattivante per coloro a cui è diretto. Abbiamo detto che il curriculum non è ben visto dall’imprenditorcapitalistaresponsabileproduzionevitamortemiracolifacciotuttomievotolega, ma pure la moscissima segretaria addetta alle assunzioni della grande azienda non lo adora, se non altro perchè lo deve leggere. Vorrà dire che creeremo un curriculum ad hoc, che risponda alle necessità sia del colosso sia della pmi.

Iniziamo. Una bella foto. Se siete uomini potete farne a meno, se siete donne vedete voi, ma non fate troppo le suorine, più avete la faccia da zozza, meglio andate. Informazioni anagrafiche, indirizzi vari ed altre generalità possono essere lasciati invariati. Discorso opposto per quanto riguarda le esperienze formative: non esagerate con i titoli di studio, anzi tralasciate pure lauree ed altro, a meno che non si parli di Bocconi e master 24ore. Certo, dipende da che lavoro cercate, ma la laurea non piace a nessuno di coloro che vi dovranno pagare, al massimo ci ricavate qualche mese di stage. Siete laureati in scienze politiche? accontentatevi di un bel diploma di perito qualche cosa. Si, il diploma è importante, come affermava mia nonna sbattendo la mano destra sul palmo della sinistra, il pezzo di carta conta e se lo diceva una donna nata nel 1913, in un paese gerontocratico come questo, non può che essere vero. In ogni caso l’importante è fingere di non essere laureati, o vi invieranno in tutta risposta una stella di David da appendere all’abito prima di ogni colloquio.

Esperienze lavorative: i profili più ricercati sono giovani sui 15 anni, con almeno tre anni di esperienza. Capisco che è difficile rientrare in parametri simili, ma provate ad immedesimarvi nelle povere s.p.a., devono assumersi loro l’onere della vostra crescita personale? Le conoscenze linguistiche sono fondamentali, l’inglese è richiesto livello madrelingua, ma non basta, titolo preferenziale sarà la conoscenza di almeno un’altra lingua.

Infine ci sono interessi e motivazioni. Se avete affrontato alcuni colloqui, vi sarete accorti di come la maggior parte dell’interrogatorio verta sui vostri hobby, le vostre passioni ecc. Vi sarete detti cavolo, è davvero importante essere una persona impegnata, con una vita pregna di attività. Non è vero, non frega niente a nessuno se fate acquagym o trascorrete due ore alla settimana in un ospizio, la verità è che fare il selezionatore è noioso e l’unica soddisfazione sono i fatti degli altri.

Conoscenze, conoscenze informatiche, linguistiche, conoscenze di tutti i tipi. Guardiamoci negli occhi e da bravi italiani diciamoci: ma a chi interessano? Le vere conoscenze sono altre e sappiamo tutti di cosa sto parlando. Prendiamo esempio dalla  saggezza popolare del buon Mario, personaggio di mia invenzione, che alla domanda del figlio ventenne “Papà, che ci devo scrivere in conoscenze?” rispose “Come che ci devo scrivere? E che pensi che a tua madre piaccia far da mangiare per dieci? Pensi che a me il consigliere comunale stia particolarmente simpatico con quella faccia da scemo che si ritrova? Pensi che mi diverta a frequentare tutti i comizi elettorali da febbraio ad aprile, o a ridere alla battute idiote del nostro cugino direttore? Scrivi ignorante, scrivi che conosci il sindaco, il maresciallo, il direttore di banca, il segretario del sindacato, il primario, il preside, il pizzaiolo…..” Insomma, date retta al messaggio che appare in piè di pagina in certe mail, risparmiate carta, salverete tanti alberi e avrete risultati più soddisfacenti. Nome, Cognome, son nato qui quel di lì, Ciò il diploma e soprattutto conosco. Là, una paginetta e siamo a posto. Yes, we know.

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Lo spread non accenna a diminuire? I salari rimangono al palo? la disoccupazione è al 9%? un giovane su tre non lavora? non vi assumono nemmeno come aiutanti degli indiani che vendono le rose? vostra moglie pratica il mestiere ma non porta a casa un pio ed anzi lapida la vostra misera paga conglobata in vestitini da sfoggiare con altri? il fumo è rincarato e per giunta fa pietà? Che gran vita di merda! Ma non possiamo arrenderci e dunque o spacchiamo tutto o speriamo. Oggi voglio essere positivo, sorridere al sole che non c’è (nevica) e dedicarvi la canzone che più di ogni altra rappresenta l’ottimismo, la speranza di un mondo migliore, la critica di una società basata sulla forza, insomma una smisurata preghiera che è forse il più genuino messaggio di quegli irripetibili ed irrealistici anni sessanta. Aprite i vostri cuori e ringraziate ancora una volta Liverpool.

P.S.: C’è il caso che domani vi insegni a costruire una molotov.

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Fui svegliato da un tremendo boato, uno schianto immane proveniente dall’esterno, probabilmente dal canale sottostante. Li per lì pensai ad un’alluvione, ma non pioveva da giorni, allora credetti in un terremoto, ma la terra sotto di me non si era mossa. Era dunque l’apocalisse? Mio Dio no, non mi sentivo pronto, non ero mai stato un buon cristiano e ultimamente mi ero ulteriormente allontanato dalla fede, perso nei bagordi delle osterie e nei balli in maschera di questa lussuriosa città che da poco mi ospitava. Intorpidito dal sonno, sentivo il cuore martellare in gola. Volevo pregare e tentare una tardiva redenzione, ma le parole mi tremavano nelle labbra e stentavano ad uscire. Con calma tentai di riprendere il controllo dei miei sensi, rallentare il respiro, convincermi che non era possibile e che probabilmente un’incubo si era impossessato della ragione. Ma proprio quando la mia mente iniziava a raffreddarsi, un altro boato, simile ad un poderoso nitrito, invase la stanza, seguito dal violento scroscio di  un getto d’acqua.  Sobbalzai nel letto e poi mi distesi, atterrito, madido di freddo sudore, la bocca spalancata per cercare ossigeno, arieggiare il mio cuore duramente provato. Dovevo capire cos’era, trovare la forza di dirigermi alla finestra e spalancare le persiane. Non avevo il coraggio, ma dovevo farlo. Per convincermi mi dissi che in fondo non sarebbe cambiato nulla, se fossi dovuto scomparire, meglio saperne il motivo. Mi alzai, tremavo, le gambe avevano perso sensibilità, le mani tremavano imperterrite, come se avessero impugnato per ore un oggetto vibrante. Raggiunsi la finestra, pensai ancora un volta a quello che stavo facendo. Poi trattenni il respiro e con gli occhi semichiusi iniziai ad aprire la finestra. Sentii che fuori c’era qualcosa, qualcosa di enorme e terribile che si muoveva scorrazzando acqua a destra ed a manca con l’immensa mole. Ora solo le persiane mi separavano dal destino. Strinsi le labbra tra i denti, caricai le braccia come per colpire con un pugno e con decisione spinsi le persiane verso l’esterno, rimanendo con le braccia profeticamente spalancate, abbracciando Canal Grande e Venezia tutta. Lo sguardo era rivolto al cielo mattutino di Venezia. Fu con la calma che contraddistingue i rassegnati che abbassai lo sguardo. Vidi e non credetti ai miei occhi, che strabuzzai nel tentativo di cambiare la strabiliante visioneverso qualcosa di più familiare, ma la realtà non si poteva cambiare: sotto i miei occhi, impacciato, pachidermico, si godeva il primo sole mattutino un grigio capogoglio. No, niente apocalisse dunque, per redimermi dai peccati il buon Dio mi concedeva ancora tempo. Mi guardai attorno, nessuno aveva avuto una reazione simile alla mia. Guardavano la balena come si guarda qualcosa di speciale, di meritevole di attenzione, ma non nuova. Non era dunque una novità per i veneziani che un grosso capodoglio passasse per Canal Grande. Strana città Venezia, strani anni questi cinquanta del XVIII secolo.

Tutti parlano della Concordia, l’ho voluto fare anche io, ma a modo mio, naturalmente. Racconto assurdo? Forse nel settecento si. Ma oggi, i moderni Moby Dick (tra l’altro il nome di una compagnia marittima) passano davvero nel Canal Grande, incuranti dei danni che possono arrecare a quel fragile gioiello che è Venezia. L’assurdo, quando ripetuto, diventa normalità. All’inizio fa impressione, poi l’occhio si abitua e diventa complice. Venezia, Isola del Giglio, ma non solo: ricordate quest’estate quanti incidenti sulle barche? Arroganza, menefreghismo, culto della furbizia e nessun rispetto per il domani. Little Italy, insomma.

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