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Scrutinio, dal latino scrutinium, azione di esaminare dal verbo scrutari, ossia ricercare rovistando, frugare. Frugare è il verbo che più mi soddisfa: lo scrutatore altro non fa che frugare tra le identità altrui, ha il diritto di vedere dove abitate, quanti anni avete, di che colore avete occhi e capelli secondo l’anagrafe (non sempre corrisponde a realtà), dove siete nati, se avete votato ultimamente. Ma non finisce qui, cari elettori. Lo scrutatore ha lunghi momenti di inattività e allora, terminate le chiacchiere di circostanza con gli sconosciuti colleghi, non ha altro passatempo che leggere le liste elettorali e scovare parentele tra omonimi. Non vi stupite, Signor Mora, se qualche indiscreto e perfido scrutatore vi  dirà con occhio disincantato “Che amabile nonnino, suo padre. E’ venuto stamattina, accompagnato dalla badante. Gran bella donna. E che persona di fiducia deve essere. Pensi che suo padre, al momento di entrare nell’urna, le ha consegnato tutto, documenti e borsellino.” E no, non si sfugge all’occhio dello scrutatore, la vostra unica speranza di privacy è legata alla coda al seggio, ma di questi tempi dovrete attendere a lungo per trovare un attimo di intasamento. E in ogni caso, pure se rimarrete immobili all’esterno del seggio, lo scrutatore attiverà la terribile violenza psicologica dello sguardo fisso. Non potrete dire cazzo hai da guardare, perché lui è lo scrutatore e ha il diritto di osservare cosa succede. Mettiamo pure che voi siate di ghiaccio, lo sguardo scrutante non vi turba affatto, ma lui potrà sempre dirvi “Prego!” e allora voi sarete fottuti. Non direte “si, si, attendo un pò di fila e arrivo”, ma entrerete mogi e consegnerete i vostri connotati al designato dal comune.

Scrutinium in latino medievale significava pure perquisizione. Tranquilli, nessuno vi infilerà le mani nel Montgomery. Piuttosto, lette le sanzioni per chi entra al seggio con telefono o macchina fotografica, sarete voi a vedere nel messo comunale un temuto questurino e consegnare nelle sue mani smartphone e affini. Probabilmente questi vi dirà di proseguire senza farvi  troppi problemi, ma il curiosone potrà assecondare la vostra offerta di legalità e separarvi dal prezioso gingillo. Narra la leggenda che un elettore, espletato il dovere civico, estraendo il telefono per avvisare la madre di buttare giù la pasta, si sia ritrovato sullo schermo dello smartphone l’involontario autoscatto di una non giovanissima scrutatrice, probabilmente poco avvezza alla nuova tecnologia, ma molto propensa all’analisi delle relazioni altrui.

Ma anche su di voi, cari elettori ce ne sarebbero tante da dire. L’oscar va al votante in cerca di protagonismo, quello che si reca al seggio alle 15 meno 2. Vi capisco. Un voto su quaranta milione significa poco, ma vuoi mettere essere l’ultimo dei quaranta milioni. C’è chi poi non sa chiudere la scheda e chiede aiuto allo scrutatore, retaggio di tempi andati quando in quinta elementare rimaneva un solo alunno a non sapersi allacciare le scarpe da solo. Un cenno lo merita chi chiede consigli o si presenta senza nemmeno sapere come si vota. Il problema non è come e chi votare, ma il perché lei può votare.

Torniamo all’impari lotta scrutatore-elettore e chiudiamo col punto della bandiera. C’è chi non si arrende allo strapotere avversario e utilizza il segreto dell’urna per vendicarsi dell’impiccione scrutatore. “Scemo chi legge”. Un voto sacrificato all’altare della privacy.

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Tirone era un ottimo scriba. Schiavo di origine greca, aveva potuto migliorare la propria triste condizione esistenziale grazie all’abilità nello scrivere. Rapido e preciso, poteva stendere frasi e parole su ogni supporto, legno, cera o papiro che fosse. Per questo motivo il senato romano lo aveva inviato al seguito di Giulio Cesare nella missione in Anatolia. Compito di Tirone era inviare alla capitale frequenti dispacci. Ora, sebbene questo incarico fosse di grande prestigio e avrebbe potuto, chissà, portare pure al suo affrancamento dalla condizione di schiavitù, Tirone non ne fu entusiasta. Non era infatti persona di fegato, amava la pace delle biblioteche e le uniche battaglie che si concedeva di combattere erano quelle contro le bottiglie di vino.

Arrivò il giorno della battaglia. L’esercito romano si sarebbe scontrato contro quello di Farnace II, re del Ponto. Tirone per tutto il giorno precedente tremò di paura. Come avrebbe fatto a seguire la battaglia da vicino, lui che rabbrividiva al solo pensiero di una daga? Chi avrebbe spiegato a quei barbari asiatici che lui era solamente uno scribacchino e perciò non doveva avere la testa mozza? No, non ce la avrebbe fatta. Cercò l’ardore mancante in un forte vinello di Cappadocia. Ah, aspro e duro, quello che ci voleva, pensò. E non elemosinò. Sentiva il coraggio nascere nello stomaco e propagarsi negli arti, nella testa, perfino nell’animo. Si, si sentiva un leone, quasi avrebbe preso a pugni quel faccia da scemo d’un oste…

Ma se il vino tanto aveva potuto con l’animo, poco poté con il fisico e il nerboruto oste, abituato a ben altri aggressori, lo stese in due e quattro otto, lasciandolo stordito e ubriaco nello sgabuzzino a ripensare alle sue malefatte.

E battaglia fu. E senza Tirone. Quando si riprese dalla colossale sbornia mista a botte da osteria, uscì per la strada del paese e capì che tutto era finito. Feriti, cadaveri, sangue, lamenti, armi dismesse, soldati esausti ovunque. Non si capiva nemmeno se la battaglia fosse stata vinta o persa. Tirone non osava chiedere, chiunque l’avrebbe potuto accusare di viltà e giustiziarlo seduta stante. Il messaggero, impaziente, chiese il dispaccio per correre verso il porto più vicino. Se il povero Tirone non avesse riferito a breve della battaglia, la sua testa sarebbe pari modo finita sulla picca di un lanciere. Doveva sapere e in fretta. Si avvicinò ad un gruppo di soldati che giocavano ai dadi. Pensò di poter recepire qualcosa dalle loro parole, ma non parlavano né il greco né il latino. Maledizione a Roma e a quella babele di popoli che era diventata! Il messaggero chiamò ancora. Iniziava ad indispettirsi.

Poi fu silenzio. Il gruppo di giocatori si alzò in fretta e gridò: “Ave Cesare!” Era proprio lui. Si fece largo tra i soldati, prese in mano i dadi e li lanciò contro la barriera. Era un tiro eccezionale, assolutamente imbattibile. Cesare allora, con fare teatrale, alzò lo sguardo al cielo e pronunciò una frase a riguardo di quel tiro fortunato che Tirone non si lasciò sfuggire. E tutti i superstiti della battaglia esultarono. Il messaggero, intanto, scese da cavallo e si rivolse verso Tirone con fare minaccioso. Alquanto adirato, lo prese per il bavero, ma prima ancora che potesse accusarlo, Tirone gli mise davanti al viso un foglio scarabocchiato in fretta e furia con impresse le parole che Cesare aveva appena pronunciato:

Veni, vidi, vici!

(venni, vidi, vinsi)

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E’ una costante dell’umanità: dagli albori della civiltà, l’apparire, il figurare, il ci sono e se ne parli non importa come ma se ne parli, fa parte dell’indole umana. Non penso sia un vezzo da esteti o malati di gossip, io stesso ora sto scrivendo per apparire, nella speranza che qualcuno legga e magari dica: “che bravo, che idea geniale!” Del resto ho sempre considerato una bufala chi ha l’ardire di affermare “lo faccio per me”. Si, anche, ma di riflesso. Mi spiego meglio: se per esempio io mi vesto in un certo modo, qualsiasi esso sia, sicuramente quello stile a me piace, ma quando mi guardo allo specchio, anche inconsciamente, mi chiedo se piacerò, se non a tutti, per lo meno a chi piace a me. Lo stesso punk (quello vero, sulla fighettagine pseudopunk passim), dall’alto del suo rifiuto più totale di tutto e tutti cerca di esprimere qualcosa attraverso l’apparenza. A se stesso, ma pure a chi lo circonda.

Con l’evolversi della società l’apparire ha assunto forme diverse e, particolare di non poco conto, si è espanso in modo esponenziale sui nostri stili di vita. Un tempo era il ritratto e la letteratura, poi venne la fotografia, poi la Polaroid, il cui utilizzo, con i dovuti distingui tecnologici, non era lontano dall’attuale digitale.  Nel frattempo il cinema presentava i primi esempi di immagini di successo da consumare: il personaggio non era più ad uso di piccole comunità o posteri, ma raggiungeva in breve tempo i quattro angoli del pianeta, magari abbinato ad una strategia del nascente marketing. La notorietà assumeva aspetti diversi, usciva dal ristretto alveo aristocratico e diventava alla portata di tutti, bramata (e per assurdo raggiungibile) pure da poveri ed analfabeti che vedevano in quell’overdose di foto e cartelloni pubblicitari il riscatto di una vita. Se ricordate il film di Visconti Bellissima (1951), la protagonista Anna Magnani è disposta a qualunque cosa pur di far ottenere alla giovane figlia una parte in un film.

Venne la televisione e ci insegnò l’italiano, ma allo stesso tempo ci abituò, in certi casi narcotizzò, all’importanza dell’ apparire, fino agli estremismi degli ultimi decenni, ben sintetizzati dalla frase di Lele Mora nel documentario Videocracy: “L’importante è apparire.” Sul perchè ed in che modo, sono altrettanto esplicativi i suoi trascorsi giudiziari. Con internet si è giunti alla democratizzazione assoluta dell’apparire. Potremmo parlare degli inventori di Google, Napster e Facebook, ignoti studenti giunti all’altare della fama, ma sarebbe fuorviante. Pensiamo piuttosto all’uso dei social network da parte della gente comune, a quella sovraesposizione, per certi versi incontrollabile, che più o meno volontariamente ci ha investito negli ultimi anni. Pure se non siete su Facebook, è certo che compariate in alcune foto, magari a vostra insaputa. Idem per YouTube: proprio ieri ho visto un video dove apparivo in un primo piano. E’ ormai entrato nella normalità il condividere con tutti, conosciuti e non, immagini ed emozioni sotto forma di foto digitali e post. Anzi, il vero “successo”, se di questo si può e vuole parlare, è misurato in base alla quantità di amicizie (non ahimè la qualità), dai Like ottenuti, da quanti commenti si riescono ad ottenere. Se da una parte l’utilità di questi mezzi è chiarissima, dall’altra può scadere in una ricerca maniacale dell’immagine, dell’apparire ad ogni costo: link banali ma condivisi, post maleducati ma di sicuro effetto, fatti propri condivisi senza rispetto né di se stessi né di chi si ritrova a leggere certe idiozie.

Il must (ma è meglio worst) sono, a mio parere, quelle persone che prima fanno alcune cose che ritengono fonte di chiacchiere e pettegolezzi e subito dopo accusano immaginari denigratori, magari a lettere cubitali (in spregio alla netiquette) di bigottismo, mancanza di apertura mentale ed affini. Ovviamente a ciò seguono risposte di fedayn del personaggio, in prima linea ad offrire assistenza a parole e perché no, pure a fatti. Fa parte della natura umana: qualsiasi rivoluzione ha effetti sia positivi sia negativi sulla società. Sullo sfondo, tolta filosofia e tecnologia, sempre quello c’è: l’importanza di apparire.

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Rinnoviamo. Questo blog ha bisogno di una ventata di novità. Niente di rivoluzionario a dire il vero, per un sentimentalconservatore come me ogni movimento deve essere ponderato ed assimililato. E poi, se proprio vogliamo dirla tutta, si nasce incendiari e si muore pompieri, come diceva uno che ne sapeva più di me. Bando alle ciance, scusate ma mi perdo sempre una volta là e l’altra qua. L’idea è questa: ogni settimana citerò una frase famosa e aggiungerò un mio simil commento. Vorrei dire breve, ma conoscendomi…

Bene. Ecco la prima:

“Parigi val bene una messa”

disse il buon Enrico IV in una calda mattina dell’estate 1593. Avrebbe dovuto rinnegare la fede ugonotta e convertirsi al cattolicesimo per cingere finalmente la corona di Parigi. Questo lo disturbava non poco, ricordava sempre con nostalgia quelle belle giornate di guerra di religione quando, con gli amici ugonotti, rincorreva i cattolici in fuga cantando “Je suis Huguenòt”. Il pensiero non gli permise di prendere sonno la notte precedente al fatidico pronunciamento. Ma, all’improvviso, gli apparve in sogno uno strano personaggio dalla parrucca bianca e lo sguardo arcigno. Gli parlò del futuro della città, dei meravigliosi boulevard, del pret-a-portet, degli illuministi, dei meravigliosi palazzi e di tutti quei personaggi che l’avrebbero popolata negli anni a seguire. Ma Henri resisteva, “No, no, je suis huguenòt” e l’apparizione le tentò tutte, pure la carta Psg, ma non ottenne nulla finchè non accennò al Moulin Rouge e alle scosciate ballerine di Can Can. Con un rivolo di bava quel vecchio sporcaccione, reduce da più battaglie tra le gambe di donne che su quelle di un cavallo, non potè che dire “Oui! Oui! W le Pape!”. Superato l’abbandono ad Eros, si disse però rammaricato di dovere abbracciare la fede rivale. Ma l’apparizione lo rassicurò, spiegandogli che a quelli ci avrebbe pensato lui. Incuriosito, Henri chiese chi diavolo fosse. “Je suis Maximilien Robespierre, monsieur Henri Bourbon…” Risvegliatosi, Enrico chiamò il fido scudiero e disse “Preparati, si va a messa” “Che era imbriaco ier sera messer Enrico?” “No, coglione, la giarrettiera val bene una messa.” Ma della prima parte della frase non v’è rimasta più traccia e la seconda, diciamocelo, non era poi molto elegante sulla bocca di un Re e così fu cambiata.

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La storia

Ieri sera, prima di addormentarmi, come mio solito ho pensato a cose futili. Ho pensato alla “storia”, intesa non come storia naturale, ma come storia degli uomini. Sono partito da una considerazione: c’è una storia di serie A, quella che viene ricordata dai posteri, l’insieme di avvenimenti destinato a modificare gli avvenimenti successivi; una storia di serie B, quella che lascia traccia per un periodo ristretto di tempo e non porta ad influenze a lungo termine; una storia di serie C, l’insieme di tutti gli altri avvenimenti, nessuno escluso, nemmeno il cambio della carta igienica. Poi, sviluppando la mia riflessione, ho pensato che ragionare per compartimenti stagni non è mai corretto. E’ vero che ci sono storie e storie, ma esse sono collegate, così come le vite di chiunque abiti questo pianeta. Argomentando e prendendo ad esempio la vita di un personaggio storico di fondamentale interesse come Napoleone, è lecito chiedersi: quanti avvenimenti nel corso della vita lo hanno portato ad imprimere un tale cambiamento nel corso della storia? Ecco che in questi episodi paralleli entrano in gioco personaggi minori, comparse che nessuna grande storia ha (giustamente) mantenuto in vita e, a sua volta, storie di altri personaggi ed altri episodi sempre più piccoli che nel loro insieme hanno fatto da fondamenta per un avvenimento di maggiore importanza. La storia è un insieme di tante storie, alcune più importanti, altre meno, ma tutte collegate e inscindibili. Allora, prima di addormentarmi, ho pensato alla storia come ad un fiume da percorrere al contrario, dal mare verso la sorgente. Alla foce avremo tutte le storie, gli avvenimenti del sabato sera, gli amori di cui rimane ricordo solamente in chi li ha vissuti, piccole delusioni ed altrettanto piccoli successi. Risalendo il corso il letto del fiume si restringe e l’acqua si depura, molte storie scompaiono e, per selezione, ne rimangono solamente altre e via via sempre meno, fino al punto in cui rimane veramente poco e, in conclusione, questo fiume di ricordi scompare in una roccia portandosi con se domande a cui probabilmente non avremo mai risposta. Ma rimane il fatto che senza la sua foce un fiume non è un fiume e alla foce ci siamo anche noi, la storia siamo noi, come direbbe De Gregori. E così, dopo aver fatto la storia, mi sono addormentato.

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Strana consuetudine comune a tutte le epoche è quella di guardarsi alle spalle e sancire, con estrema parzialità, quanto i tempi andati fossero stati migliori di quelli presenti. I meno illusi, ma pur sempre sensibili al fascino retrospettivo,  coniarono il proverbio “Si stava bene quando si stava peggio”, che, nella sua sardonica ironia, non mi pare sbagliato. Non è certo immune a tale andamento la nostra epoca, con i suoi orrori ed errori, le sue nefandezze a portata di pubblico/consumatore. Umberto Eco divise gli uomini in due categorie, “apocalittici” e “integrati”: i primi sono coloro che vedono il male in ogni novità, i secondi sono gli epigoni di quel positivismo tecnicistico che percorse l’europa a fine ottocento. Io, non me ne voglia vossignoria, credo non sia possibile dividere gli uomini in categorie precise. Certo, c’è chi sta più di quà e chi più di là, ma fondamentalmente se disegnassimo un diagramma di Venn per ogni persona, la predisposizione della quasi totalità di noi sarebbe simboleggiata dallo strapotere della zona centrale, quella dove i cerchi si sovrappongono e vi dicono che non siete nè carne nè pesce e se siete furbi con un saltello balzerete tra gli apocalittici quando si parla di omicidi, pedofilia e notizie da Tg varie, mentre vi schiererete con gli integrati quando ci sarà da scucire a madri, mariti, mogli, se stessi per il prossimo Iphone. “Vario in vari parer si scinde il volgo”, disse il buon Virgilio e cosa vera è, ma aggiungerei alla massima de lo duca di Dante, sempre se mi è permesso, che la convergenza al centro fa sempre comodo e quando ci si arriva non ci si leva più i piedi, se non per breve e giustificata causa. Non è un caso che nell’Assemblea nazionale francese (il parlamento durante il periodo rivoluzionario per intenderci) la zona al centro era chiamata “palude”… Per concludere, vi dirò del mio romanico vicino di banco alla mensa, l’uomo per colpa del quale ho scritto questo… vedete voi come chiamarlo. Ce stavamo a magnà du porpette cor purè e si guardava la Tv e come sempre qualcuno ammazzava l’altro e stavolta è toccato ad un fratello ed al mio vicino questo non è andato giù. Le polpette si, questo no. E non si ammazzano i fratelli, diceva insomma, non si è mai sentito al mondo, mai è successo nel passato. Mentre pensavo in silenzio alla storia di Caino ed Abele, il Tg passa a parlare delle cellule staminali e al mio mai satollo vicino manco questo va giù, perchè non è possibile che nel 2012 si crepa ancora per niente e ci vogliono più ricerche e va bene tutto anche gli ogm e chissacheccazzo basta guarire, campare, progredire, magnà porpette…. Prima che si arrivi allo sport e magari alla Roma mi alzo e penso: bello mio, datti una regolata perchè così è troppo, nel tuo caso il diagramma di Venn è una O e basta (con in mezzo du porpette).

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Un chimico, magari quello di Spoon River reso celebre da Edgar Lee Master e cantato da De Andrè, o anche un positivista di fine XIX secolo, vi direbbe senza spocchia accademica che acqua è H2O, nient’altro che due molecole di idrogeno ed una di ossigeno, sempre. Un animista delle foreste angolane obietterebbe ad una tale blasfemia che ogni singolo oggetto, pianta e ovviamente animale del creato ha un’anima ed essa va rispettata ed in alcuni casi adorata, ergo, l’acqua è uno spirito, sia che essa imputridisca in una pozzanghera alle falde del kilimangiaro, sia che luccichi sulla costa di Zanzibar tra gli sguardi anelanti dei turisti occidentali.  Pareri, due lati di quella stessa medaglia che porta il vituperatissimo nome di libertà di pensiero. Ma io, allegro ma non troppo frequentatore di acquazzoni e grandinate varie, una domanda di tale filosofica entità la vorrei porre a chi nell’acqua sguazza ventiquattro ore al dì. Chiedetelo a questo pesce, questo membro del clan ittico che si, sguazza nell’acqua, ma nella sua mente binaria questiona sul perchè l’acqua, che sempre H2O è, abbia un sapore tanto diverso a seconda di dove tu ti trova. Le cose, qualsiasi cosa, hanno un significato ed un sapore diverso a seconda dell’importanza che queste hanno per noi. L’acqua è acqua, dolce o salata, pulita o sporca, ma per chi ci vive ci sono molte altre variabili. Una trota potrebbe chiedere ad un carcerato: di che ti lamenti, vivi nell’aria, come chiunque altro. Una bella fava, risponderà il galeotto. E’ così per tutto, un incantevole posto turistico dove gli autoctoni muoiono di fame tra gli sguardi prosciuttati dei turisti, un agognato anello di fidanzamento con tanto di diamante ottenuto dal sangue congolese. Ma le situazioni non sono immobili: basterebbe poco, una piccola spinta, per cambiare il sapore a quell’acqua. Abbiamo molto più potere di modificare in meglio ciò che ci circonda di quanto noi crediamo, basta aprire la nostra mente. Aprirla, al di là di un recinto, di vetro o di mattoni che sia.

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Pangea. Molti di voi sanno di cosa si tratta, altri staranno zigzagando tra i ricordi di interrogazioni alla lavagna, sussidiari e professoresse in tailleur, che poi l’abito delle professoresse che senso abbia nell’economia del discorso non lo sa nemmeno chi scrive, ma tant’è, mi piace e lo scrivo. Ricordo, a parte i tailleur, che un bel dì la prof di geografia, rappresentiamola in tailleur e morta lì, venne in classe e ci parlò di tale Pangea, uno strano fenomeno attuatosi nella famosa notte dei tempi, si, caro Montanari, prima ancora dei dinosauri e del tuo amico Denver, quando la terra non era ancora vivibile, silenzio Bertoli, anzi no, qualche microcefalo se la girava già per i condotti cellulari della futura Madison square o tra le ancestrali ramblas, ma queste sono cose di poco conto. Dice wikipedia alla voce Pangea, magari scritta dall’ormai ritiratasi Signora Ortalli in tailleur, insegnante delle medie del sottoscritto: “è il nome del supercontinente che si ritiene includesse tutte le terre emerse della Terra durante il Paleozoico e il primo Mesozoico”. Il povero Bertoli, di cui non ricordo altro che una maglietta del Borussia Dortmund ed un mazzo davvero esagerato di figurine doppie, alla menzione di supercontinente deve aver pensato: E la coppa intercontinentale? probabilmente chi vinceva la champions degli invertebrati vinceva tutto, Bertoli, un pò come assopigliatutto. Probabilmente accortasi del nostro stupore e della nostra incapacità di capire che fine avesse fatto, in tutto ciò, la California di Mitch Buchannon e delle tettone bionde, l’estrosa Ortalli optò per un similgioco con forbici e carte. Eccoci tutti attorno alla cattedra, intraprendenti nel nostro copia incolla di continenti e isole, estasiati di fronte agli spettacolari ricongiungimenti di Africa e Sudamerica (ecco perchè Pelè era nero, sentenziò Bertoli), Arabia e Somalia, Sri Lanka e Bengala, mentre il povero Ferroni,il più sensibile di tutti, quello che frignava perfino per la dipartita delle formiche, con fare commosso si chiese quanto dovessero aver sofferto i poveri microcefali così brutalmente separati. Per noi, in fondo, era un pò come abbattere il muro di Berlino e riportare tutti a casa, Bringing it all back at home, come avrei scoperto da Bob Dylan alcuni anni dopo. E un giorno di scuola se ne andò così.

Signora Ortalli, ovunque lei ed il suo tailleur ora vi troviate, le volevo dire che ho attaccato un altro pezzo del supercontinente. Ci sono due isole nel basso Mediterraneo che al tempo dei microcefali dovevano essere sicuramente parte della Tunisia. Glielo assicuro, non è solo una questione di puzzle e incastri, c’è qualcosa d’altro che li unisce. Ma questo, prof, glielo spiego un’altra volta. Saluti da Malta.

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Image

Non ricordo il nome della rivista da cui ritagliai questa foto, ma so, con esattezza, che correva l’anno 1995, perchè, in quell’assurdo melting pot di immagini e pensieri che è la nostra mente, l’azione di ritaglio è indelebilmente associata con l’azione successiva, la cernita delle figurine doppie donatemi da un compagno di classe. Quell’album lo conservo ancora, era il 1994/95 e, se qualcuno se lo è chiesto (io lo avrei per lo meno pensato) mi mancavano De Agostini della Reggiana, Bresciani del Foggia, Chiesa della Cremonese, gli stemmi di Lazio e Crevalcore e le foto di squadra di Lucchese, Biellese e Acireale per terminare l’album. Mai arrivato così vicino al completamento. Fatto sta che avevo solamente tredici anni e puzzavo ancora di serpente, che sarebbe a dire che dell’attualità mi interessava pressochè nulla. No, la Cecenia era probabilmente incollocabile sulla carta geografica e delle prove di forza dello zar Boris in quel di Grozny non sapevo e non volevo sapere alcunchè. Ma quella foto mi piacque, attirò il mio istinto di forzato della scuola e del bemolle, io, musico improbabile, costretto a suonare quel flauto che non mi piaceva, non mi capiva. E poi, cercando risposte emotive alla mia prima pubertà tra le avvenenti femmine delle pubblicità di Gorgonzola ed Eminflex, nelle patinate riservate all’attualità spuntava la foto di un soldato russo intento a cercare gli ultimi agonizzanti suoni di un pianoforte sfondato dalle bombe ed abbandonato da proprietari che avevano ben altro a cui pensare. Non so cosa provai allora, perchè decisi di estrarre l’immagine e collocarla nella mia galleria dei ricordi. So, però, cosa provo ora, a distanza di dodici anni e potrei dirvi che la guerra distrugge le passioni, uccide l’arte, lobotomizza i cervelli, ma non vi dirò niente di tanto banale. No, io vedo altro, vedo un bambino della periferia di Mosca cresciuto nelle grigie scuole sovietiche, dove l’insegnamento dell’arte era inculcato nella speranza di creare artisti della guerra fredda. Vedo un ragazzo che abbandona i libri e pure la coscienza civile, assiste al crollo di un muro e di un sistema che gli ha imposto di giocare a scacchi, ascoltare Rimskij-Korsakov e dire ja sempre e comunque, ma che nello stesso tempo garantiva un lavoro al padre, lavoro che poi non è più esistito, con tanta rabbia di tutti e guadagno di qualcuno. Vedo, ancora, un giovane arrabbiato, imbevuto di orgoglio nazionalista, preda di millantatori di potenze perdute, decantatori di futuri splendori e guerre di razza e religione, avidi sfruttatori di delusioni altrui. Un kalashnikov, qualche rublo ed una buona dose d’odio verso lo sconosciuto che abita le pendici del vecchio Caucaso. Ma sotto il soldato, sotto le mimetiche e le portacartucce, rimane sempre quello studente di Mosca che non riusciva a fare la scala perchè aveva le mani troppo piccole e la volontà troppo debole, mentre ora che le dita sono rese veloci dal grilletto del fucile e la volontà gli è stata forgiata in caserma, non può più farla quella scala, non puòperchè manca un tasto, un mi per l’esattezza. Allora pigia ripetutamente il do, che in verità non è un do, ma un suono metallico che di musicale ha ben poco e pensa. Pensa, ma non sono affari nostri e non ci è dato sapere cosa e perciò lasciamo pensare il ragazzo della periferia di Mosca.

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“Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell’imbarazzo di mettere su la pagina culturale, perché il “Lisboa” aveva ormai una pagina culturale, e l’avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte.”

Uno dei miei libri preferiti, un libro sulla libertà e sull’uscita dallo stato di indifferenza verso ciò che ci circonda, un racconto che narra dell’impossibilità di chiudere gli occhi e scostare lo sguardo dinnanzi allo scorrere della storia. Ho amato questo libro perchè amo chi racconta di libertà, chi sa amare senza fanatismo. Questo Tabucchi era: uno che amava il Portogallo in tutte le sue forme e colori, ma sapeva rifuggire lo stolto nazionalismo, madre di innumerevoli violenze.

Addio, Signor Pereira.

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