Fui svegliato da un tremendo boato, uno schianto immane proveniente dall’esterno, probabilmente dal canale sottostante. Li per lì pensai ad un’alluvione, ma non pioveva da giorni, allora credetti in un terremoto, ma la terra sotto di me non si era mossa. Era dunque l’apocalisse? Mio Dio no, non mi sentivo pronto, non ero mai stato un buon cristiano e ultimamente mi ero ulteriormente allontanato dalla fede, perso nei bagordi delle osterie e nei balli in maschera di questa lussuriosa città che da poco mi ospitava. Intorpidito dal sonno, sentivo il cuore martellare in gola. Volevo pregare e tentare una tardiva redenzione, ma le parole mi tremavano nelle labbra e stentavano ad uscire. Con calma tentai di riprendere il controllo dei miei sensi, rallentare il respiro, convincermi che non era possibile e che probabilmente un’incubo si era impossessato della ragione. Ma proprio quando la mia mente iniziava a raffreddarsi, un altro boato, simile ad un poderoso nitrito, invase la stanza, seguito dal violento scroscio di un getto d’acqua. Sobbalzai nel letto e poi mi distesi, atterrito, madido di freddo sudore, la bocca spalancata per cercare ossigeno, arieggiare il mio cuore duramente provato. Dovevo capire cos’era, trovare la forza di dirigermi alla finestra e spalancare le persiane. Non avevo il coraggio, ma dovevo farlo. Per convincermi mi dissi che in fondo non sarebbe cambiato nulla, se fossi dovuto scomparire, meglio saperne il motivo. Mi alzai, tremavo, le gambe avevano perso sensibilità, le mani tremavano imperterrite, come se avessero impugnato per ore un oggetto vibrante. Raggiunsi la finestra, pensai ancora un volta a quello che stavo facendo. Poi trattenni il respiro e con gli occhi semichiusi iniziai ad aprire la finestra. Sentii che fuori c’era qualcosa, qualcosa di enorme e terribile che si muoveva scorrazzando acqua a destra ed a manca con l’immensa mole. Ora solo le persiane mi separavano dal destino. Strinsi le labbra tra i denti, caricai le braccia come per colpire con un pugno e con decisione spinsi le persiane verso l’esterno, rimanendo con le braccia profeticamente spalancate, abbracciando Canal Grande e Venezia tutta. Lo sguardo era rivolto al cielo mattutino di Venezia. Fu con la calma che contraddistingue i rassegnati che abbassai lo sguardo. Vidi e non credetti ai miei occhi, che strabuzzai nel tentativo di cambiare la strabiliante visioneverso qualcosa di più familiare, ma la realtà non si poteva cambiare: sotto i miei occhi, impacciato, pachidermico, si godeva il primo sole mattutino un grigio capogoglio. No, niente apocalisse dunque, per redimermi dai peccati il buon Dio mi concedeva ancora tempo. Mi guardai attorno, nessuno aveva avuto una reazione simile alla mia. Guardavano la balena come si guarda qualcosa di speciale, di meritevole di attenzione, ma non nuova. Non era dunque una novità per i veneziani che un grosso capodoglio passasse per Canal Grande. Strana città Venezia, strani anni questi cinquanta del XVIII secolo.
Tutti parlano della Concordia, l’ho voluto fare anche io, ma a modo mio, naturalmente. Racconto assurdo? Forse nel settecento si. Ma oggi, i moderni Moby Dick (tra l’altro il nome di una compagnia marittima) passano davvero nel Canal Grande, incuranti dei danni che possono arrecare a quel fragile gioiello che è Venezia. L’assurdo, quando ripetuto, diventa normalità. All’inizio fa impressione, poi l’occhio si abitua e diventa complice. Venezia, Isola del Giglio, ma non solo: ricordate quest’estate quanti incidenti sulle barche? Arroganza, menefreghismo, culto della furbizia e nessun rispetto per il domani. Little Italy, insomma.
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