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Un anno fa

Una steppa sovraffollata. Tante costruzioni, macchine brulicanti ovunque. Così l’avevo conosciuta e così la salutavo. Dall’alto, sempre dall’alto. In aprile l’aereo era sceso lentamente, girando attorno all’isola innumerevoli volte, un’infinita serie di tornanti capaci di far perdere quel poco di orientamento che poteva avere chi, come me, la conosceva solamente tramite la mediazione asettica della cartina. Ed ora l’aereo ripercorreva la stessa tortuosa traiettoria, ma non più lentamente, anzi, ripercorrendo quel girone dantesco, l’aereo sembrava avere una certa fretta. Era come se a Malta avesse imparato che tutto vive per una sola stagione e tutto, dunque, deve correre. A Malta si corre in estate, perché a stare fermi si rischierebbe di bruciarsi sull’asfalto rovente, si corre in autunno, per fuggire dall’isola, si corre in inverno, per attendere la primavera che non esiste ed è subito estate. Malta, nei miei occhi di passeggero, quel 13 settembre dello scorso anno diveniva una landa marrone, le case e le macchine scomparivano e rimaneva la terra nuda. Era come se, allontanandosi, l’isola ritornasse allo stato naturale. E forse sarebbe stato giusto così, evacquare lo stato più densamente abitato d’europa, inviare migliaia di aerei pronti a rimpatriare il superfluo, mondare l’antica isola dei fenici e dei cavalieri dal cemento e dagli uomini superflui. Ma forse no, forse Malta, la grande puttana, non chiedeva altro che una botta e via. Venite italiani, russi e ungheresi, non fatevi implorare bulgari e spagnoli, venite e succhiate il capezzolo di Malta, sudate e godete e fate tutto in fretta perché se tutto corre  qui corre ancor di più. Non lasciate niente sul comodino, mi raccomando, l’autunno fa pulizia e cestinerebbe tutto comunque. Malta, la grande incontinente che non sa mantenere gli affetti e li ricaccia nel Mediterraneo. E riesce comunque a farsi volere bene.

Malta a poco a poco scompare, Gozo non esiste nemmeno più. Ora l’isola è solo un puntino, ora nulla più. In lontananza appare la Sicilia, la grande sorella.

Il treno mi avvicinava a casa, il buio della notte mi proteggeva e confortava. Sentivo la locomotiva ripercorrere il cordone ombelicale e riportarmi alle origini di tutto. Malta ritornava ad essere quello scoglio tra Europa ed Africa di cui nessuno conosce il nome della capitale. Rimanevano gli odori forti, i colori giallognoli, le parole arabe, le occasioni sprecate e le persone conosciute. Un uomo in particolare imparai a conoscere: colui che, in quel treno vuoto, tentava invano una sintesi dell’esperienza più forte che aveva vissuto negli ultimi trent’anni. Alla stazione di Fornovo cambiai treno. Erano le nove di sera. Nessuno nei paraggi, solamente una giovane donna che mi guardava e probabilmente si chiedeva da quale lungo viaggio stavo ritornando. Osservai Il mio respiro uscire fumante dalla bocca. Eppure era settembre. Ero definitivamente tornato a casa.

Ti ricordi di me, Malta? E’ passato solamente un anno. No? Lo sapevo. Non ti preoccupare. Sono solamente uno dei tanti che ti ha vissuto, sofferto e, in fondo, anche un po’ amato.

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Digitare la stazione di destinazione.

 

Brescia. B R E S….. B R E…. BR….. B…..

 

S. Giovanni

 

Destinazione scelta S. Giovanni. Inserire 5,80 euro.

 

Toh

 

Ritirare il biglietto. Arrivederci e grazie.

 

Giacomo non si sveglia mai alla stessa ora e non si reca mai per due giorni consecutivi nello stesso luogo. Bologna, Milano, Brescia, ma anche paesi meno noti. Giacomo è giovane, ma ha già esperienza e i capi si fidano di lui. Lavora in agenzia da cinque anni, era fresco di laurea quando cominciò. Basta una mail, un indirizzo e una spiegazione sbrigativa sul da farsi. Giacomo sa gestirsi, non c’è bisogno di controllare.

E tutti, proprio tutti, in agenzia sono pronti a giurare che Giacomo ama il suo lavoro, anzi, quante volte, davanti alla macchinetta del caffè, gli impiegati si confermano l’un con l’altro che si, Giacomo se la passa proprio bene, guadagna, viaggia e ama il suo lavoro, perché poi, sai bene, si può fare anche i milioni ma se non ti piace il tuo lavoro è una vita di merda.

Si, possiamo dire che a Giacomo il suo lavoro piace. Ma buttarla giù così, come farebbe un impiegato durante un break, è un pochino superficiale. A volte, mentre viaggia sul treno, Giacomo pensa che fino a due anni prima le cose erano differenti. Ogni incarico era più stimolante, ogni viaggio una scoperta, ogni nuova conoscenza un tesoro. Poi tutto cambia e Giacomo si chiede se è l’età o la necessità di stabilizzarsi. Gli altri lo invidiano perché non si alza ogni giorno alla stessa ora e non deve ripetere lo stesso viaggio all’infinito, ma per lui non è così. Non lo dirà mai a nessuno, ma da un po’ di tempo invidia chiunque abbia una vita normale, rimanga imbottigliato nel traffico, sappia dove e cosa farà la settimana successiva. Non è tutto. Ultimamente Giacomo si è trovato a idealizzare una figura in particolare, un uomo che gli capita di vedere spesso, indaffarato nel suo lavoro. C’è un’azienda, a Brescia, dove si reca spesso e per raggiungerla deve attraversare un tratto di campagna con il treno. Qui, in mezzo al verde dei pochi prati e al marrone dei tanti campi arati, vede la sua personalizzazione di normalità. Lo vede mentre il treno si lascia alle spalle la stazione di S. Giovanni ed ha una velocità ancora modesta. Taglia, zappa, raccoglie, muove il trattore, quell’uomo è sempre in movimento. Ogni mattina si sveglia e passa in rassegna le vacche, poi va nel campo. Sempre uguale, ogni giorno, da mattino a sera. Che bucolico idillio. Non può vedere il suo viso, ma poco importa. Quando s’idealizza qualcosa, si finisce per credere che sia veramente così. Insomma, Giacomo si è ormai convinto che sotto quella barba bionda ci sia il sorriso di un giovane lombardo, magari laureato, uno di quelli che ha fatto materie umanistiche e poi non hanno trovato occupazione, oppure un ex manager o semplicemente un impiegato. Uno come lui, cazzo.

E poi arriva un giorno in cui scoppia. Te ne accorgi giorni prima, quando arriva. La sveglia cambia inaspettatamente suoneria e si fa più acuta, lo spazzolino è più pesante, il caffè è sempre freddo, la bottiglia dell’acqua in frigo è vuota. Stanchezza, stanchezza infinita. Provi con i ricostituenti, ma, a parte levare le borse sotto gli occhi, le cose non migliorano. Boom. Eccolo qui, ora, mentre attende il suo biglietto alla biglietteria automatica. Non è stata una scelta facile, basta vedere le facce dei due studenti in coda per capire quanto ha riflettuto.

Giacomo sprizza energia. Si siede, ma non riesce a stare fermo. In lui freme il nuovo, l’adrenalina lo scuote e gli parla, la coscienza è stata usurpata o forse no, forse ora, solamente ora, può esprimersi davvero. E’ così euforico che gli sembra che il treno tremi sotto i suoi movimenti.

S. Giovanni è una stazione minuscola, attorno ad essa un qualche centinaio di case e fattorie. Giacomo percorre una mulattiera costeggiando la ferrovia. Bellissime le pozzanghere, quasi è un peccato doverle evitare, oh, un calabrone, che delicato ronzio. E che dire di quel profumo caldo di fieno che si mescola meravigliosamente a quello acre e pungente del ferro delle traversine?

Eccola. La stalla, la casa, i trattori. Dov’è? Dov’è quell’uomo? Deve parlargli, deve chiedergli come ha avuto tanto coraggio. Può averlo anch’esso? Parlami guru parlami! Eccolo! Giacomo si avvicina.

All’inizio è un’impressione, poi diviene certezza. Niente barba bionda. No. Ora lo distingue benissimo. Quell’uomo è nero. E non sembra nemmeno giovane, a dir il vero non saprebbe quantificarne l’età.

Nessun razzismo, ma la delusione serpeggia nella sua mente. Supponete che nel vostro immaginario il pelide Achille sia biondo e con gli occhi azzurri e un bel giorno vi arriva un artista underground e ve lo rappresenta moro con gli occhi a mandorla, beh, sfido voi a non rimanere interdetti. Giacomo timidamente saluta. L’altro risponde. Giacomo inizia a parlare, fa domande, sebbene non con la grinta che pensava di utilizzare in treno. L’uomo di colore non risponde. Poi lo interrompe e dice “Io no parla bene italiano. Io chiamo Godfred e viene da Senegal.” Giacomo sente la delusione. La combatte, ma sa che presto si approprierà prima del suo corpo togliendogli le forze e poi della sua mente, offuscandone la volontà. Continua a chiedere, ma l’altro non vuole rispondere, è sulla difensiva. Arretra e dice che deve andare. Giacomo capisce, è stato scambiato per un agente o qualche altra cosa. Godfred è clandestino, certamente. Lo chiama. Godfred. Godfred. Non sono qui per disturbarti, scusami, non m’interessa da dove vieni. Ma Godfred deve veramente andare. Si spiega, non vuol essere cafone, ma se il capo lo vede, dirà al caporale di non chiamarlo più e lui non saprà come tirare avanti. E’ una vita dura, dieci anche dodici o tredici ore a volte, ma non può rinunciare a quei 3 euro l’ora. Giacomo si scusa ancora. Lo saluta e se ne va, così, a testa bassa.

E ora eccolo qui, l’uomo del sogno infranto, seduto su una panchina con il corpo proteso in avanti, la ventiquattrore tra le gambe, come la coda di un cane. Se ci avviciniamo, possiamo ascoltarne il dialogo interiore: Che ne pensi Giacomo? Era una piccola follia. Preferirei chiamarla sogno, ma alla fine, di una follia si trattava. Ti dispiace sia finita così? Beh, si mi dispiace. Un po’ ci credevo. Ma era una follia. Non so che mi è capitato.

La campana della stazione di S. Giovanni ha terminato di suonare, il treno è in arrivo. Arriverà a Brescia con un paio d’ore di ritardo. Si scuserà con i clienti, di sicuro avranno già chiamato in agenzia per chiedere ai capi che ne era di lui. Ma quelli non si saranno preoccupati di certo. Giacomo è affidabile. Giacomo risolve tutto. Giacomo non farebbe mai una pazzia.

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Sono adolescente, di questo ne sono sicuro. Attorno a me persone che frequentavo allora, alcune non so nemmeno che fine abbiano fatto, ma poco importa. Sono a cavalcioni del mio vecchio Fifty, il piede destro poggiato a terra e quello sinistro sulla leva del cambio. La frizione è tirata dalla mano sinistra, con la destra ruoto la manopola dell’acceleratore. Il rombo del motore in folle è importante, mi da la carica giusta. Questa volta devo farcela, tutti mi guardano e c’è pure lei. L’ultima volta non me la sentii di saltare quel dosso e dovetti frenare all’ultimo momento.  Eppure Jimbo e Sam quel salto lo fecero. E io no. Finché non farò quel salto non sarò alla pari con loro, non potrò sostenere lo sguardo di lei. Io e il dosso, il grande ostacolo tra me e la realizzazione. Sento salire l’adrenalina, quella giusta, scevra di ogni paura. Innesto la prima, mollo la frizione e contemporaneamente premo la manopola dell’acceleratore. Prima. Seconda. Terza. Trattengo il respiro e affronto il dosso. Qualcosa suona. Sto per staccarmi da terra con il mio Fifty. Suona ancora. Eppure non esistevano i cellulari al tempo. Sono in volo. Ora la parte più difficile. Il terreno non sembra mai arrivare, anzi, si direbbe che si allontana. Lo vedo lontano, tutto è lontano e sbiadito.

Sono caduto? No sono sveglio. O forse sono caduto perché di fianco a me sento un dosso. Non è terra. Ora che ci penso non può essere quel dosso, quello era grande, questo è delle dimensioni del mio corpo. Lo accarezzo con la mano e ne constato la calda accoglienza. Intanto, quel suono stridulo continua a perdersi nell’aria. Ho già capito cos’è. E’ il mio destino, la mia condizione. Allungo una mano verso la sveglia, ma il dosso mi impedisce di arrivarci. C’è sempre qualcosa tra me e l’intenzione. Devo imparare a convivere con gli ostacoli, non posso vivere in competizione, non posso permettere a quella bestia di intrufolarsi nei miei sogni. Questo vivere nel confronto è alienazione pura e io devo reagire.

Apro gli occhi e osservo questa duna di lenzuola arrotolate. E’ creata ad arte, impedisce le mie relazioni con il resto del mondo. Sbadiglio e l’abbraccio. Devo imparare a convivere con gli ostacoli. La sveglia termina di suonare. E’ un’illusione: cinque minuti e poi ricomincerà a suonare. Una funzione infernale: si chiama Snooze, cinque minuti e suona di nuovo. Non c’è nulla di definitivo, tutto è relativo, momentaneo, ripetitivo. Giusto il tempo di vedere come è andata a finire con quella duna. Bisogna iniziare la giornata con mentalità vincente. Lo dice sempre il mio capo. Oggi potrebbero approvare il mio progetto… ma quello di Lucia è forse migliore del mio…

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C’era una volta un novello fantasma che, di poco uscito dall’accademia delle anime erranti dove gli era stato conferito il lenzuolo bianco, decise di cercare un’occupazione. Ora, dovete sapere che pure nell’aldilà la meritocrazia è un concetto ancora da venire e i posti migliori (ad esempio fantasma formaggino, ghostwriter, gol fantasma, fantasma del film Ghost ecc.) erano già occupati da chi aveva amicizie molto in alto come il gran faccendiere fantasma di Canterville. Ma il nostro neofantasmino conosceva appena appena gli spiriti del bancone del bar e fin da subito dovette arrabattarsi con quel che trovava. Iniziò una ricerca spasmodica, castello per castello, palazzo per antica dimora, ma si trovava sempre di fronte trasparenti segretarie, nemmeno stimolanti zone che più non aveva, che gli ripetevano la stessa frase: “Attenda, le faremo sapere qualcosa, prima o poi.” Attenda. Si fa presto a dire attenda ad un fantasma, ma questo può attendere pure per l’eternità! Un giorno trovò lavoro in un albergo abbandonato. Era al settimo cielo, pagò pure da bere agli spiriti del bancone, sebbene avesse avuto sangue genovese e scozzese nella sua precedente vita. Iniziò con smania, ma il lavoro era veramente pessimo: niente persone vive da spaventare, tutto ciò che doveva fare era raccogliere le lenzuola sporche dei ricchi fantasmi che andavano a svernare in quell’albergo. A parte conoscere la natura sporcacciona dei suoi pari, il sottopagato fantasma non aveva nulla da imparare in quel posto. Trovò in una fabbrica di gadget per Halloween, ma le cose non migliorarono: il capo era un fantasma viscido con tanto di lenzuolo di seta che aveva occhi solo per la segretaria, femmina lasciva con lenzuolo cortissimo in modo da far vedere tutta l’anima, ignobile spirito di una falsità incredibile testimoniata dalla presenza dei fori facciali sia nella parte anteriore sia in quella posteriore del lenzuolo. L’invereconda donna lo detestava e tanto fece che riuscì a farlo licenziare. Il povero fantasmino non trovò più nulla e si dannò l’anima, cosa alquanto pericolosa per un fantasma. Non cercava più lavoro, passava le giornate al bancone e, trascurandosi, non si accorgeva nemmeno che il suo lenzuolo si stava ingrigendo. Poi un giorno ebbe un’intuizione, prese due sfaccendati spiriti del bancone e li portò con sé in un  paese abbandonato da tutti, viventi e non. Iniziarono a fabbricare lenzuoli a mano, spiriti (questa volta intendiamo alcolici) fatti in casa, zucche intagliate ed altra oggettistica che a noi viventi dice poco, ma per i fantasmi sono cianfrusaglie di una certa importanza. Insomma i tre si arrangiavano, certo non arricchivano, ma per lo meno sopravvivevano e avevano ridato vita (si fa per dire…) ad un vecchio borgo abbandonato. Ma il nostro evanescente amico aveva altro in mente, non poteva dimenticare le disavventure passate e allora decise di fare il fantasma a tempo perso e a modo suo. Un giorno, che sarebbe l’equivalente di “una notte” in una favola per viventi, il fantasma tutto intabarrato si recò in città per sbugiardare chi doveva pensare al lavoro dei fantasmi ed invece faceva tutt’altro per non dire nulla. Fu così che la notte dopo i fantasmi si svegliarono con diverse sorprese: c’erano cartelli appesi alle agenzie del lavoro con scritto “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”, un grande scritta all’entrata del Centro per l’impiego diceva “L’ozio nobilita l’uomo”, mentre molti politici si trovarono il lenzuolo imbrattato con la frase “L’insopportabile fatica di non far nulla”. Ne nacque un caso, si parlò di terrorismo 2.0, eroe dei nostri tempi, lo si descrisse come genio e come fanafarone che non voleva abbassarsi a fare non si sa bene che lavoro, si scomodarono figure come Ned Ludd, Guy Fawkes, Che Guevara e pure il buon Gesù, i più arditi. Si fecero leggi ad personam, si scrisse molto. Ne rimase sconvolto e decise di lasciare un’ultima scritta: “Non avete capito una fava. Stronzi tutti.” Non sappiamo come la prese l’aldilà 2.0, perchè il nostro si ritirò nel suo paesello e visse, o meglio vagò nelle tenebre, se non felice e contento, per lo meno occupato.

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Un giorno

Due? Facciamo tre, tre cucchiai di zucchero, crepi l’avarizia. Una tazza nera con un belll’incrocio tra pappagallo e piccione stilizzato in verde, un terribile miscuglio di caffè solubile con zucchero imputridito acquisito con il contratto dell’appartamento e un biscotto, forse due. Ma si, facciamo due, poi basta però e basta significa che fino a stasera non si mangia. A proposito di alimentazione, ci deve essere in questa isola un insetto mangiasoldi, non è possibile che pur non spendendo pressochè nulla io mi ritrovi sempre in bolletta. Anche ora dovrei aprire il portafoglio, ma non ne ho il coraggio. Allungo una mano e piego tra le dita il lembo della tasca con le banconote, trattengo il respiro e sbircio con sguardo obliquo di bovino il colore della carta all’interno: grigio male, rosso insomma, blu bene, giallo c’è un problema di daltonismo. Blu. bene, dai, vediamo il prossimo biglietto. No more, nessun’altro biglietto, non chiedere troppo. E va bè. Povera la mia pancia, dunque, che vedo calare inesorabilmente ogni mattina davanti allo specchio, non che avessi chissà che rotondità, intendiamoci, ma la linea convessa, complice anche la scarsa quantità di alcolici, sembra assottigliarsi ogni giorno di più. Ma tant’è, qui non mi conosce nessuno e nessuno mi dirà sei dimagrito o altre panzane, anzi, nessuno mi nota o dirige il suo sguardo verso questo pseudonordico che non si capisce se è italici o brtannico. No uno c’è e me ne accorgo sempre troppo tardi, quando la traiettoria dei miei passi incrocia, ormai inesorabilmente, lo sguardo felino del gatto obeso che staziona vita natural durante sotto casa mia e sembra non aver di meglio da fare che guardarmi sprezzante dall’alto della sua pinguedine, quasi a chiedermi se e cosa ho mangiato oggi. Evito gli o o o occhi di gatto e mi dirigo verso la zona turistica, dove contribuirò all’estinzione della razza umana tramite l’uso spregiudicato, inusitato e totalmente inutile di cellulosa da curriculum. E qui vi risparmio, tralascio il tutto e vi basti sapere che, almeno per me, tutto il mondo è paese, con tanto di bestemmie lanciate come post it per chi si spera a volte si ricordi che in fondo non avevo chiesto a nessuno di prendermi gli oneri e neppure i scarsissimi onori di una vita quaggiù. La mia mamma dice che sono un po’ sfortunato e io vorrei anche provare a giocarci un po’ su questo, come ieri ad esempio, quando mi sono ritrovato a tu per tu con la cassiera del Lidl e avrei voluto dirgli che quaranta euro di spesa per uno sfortunato sono una bella cifra, ma gli inglesi  dietro di me sbuffavano ansiosamente e dimenavano le mani tremolanti in attesa di fagocitare le ventiquattro lattine ancora confezionate che si portavano appresso. E così non se ne è fatto niente. Insomma, terminata la gimkana di frustrazioni, mi concedo una birra al pub vicino casa, ovviamente la più cheap, addirittura in lattina, in modo che l’alluminio conceda fragranza alla spremuta di luppolo gassificata. Fa pietà, lo so ancor prima di prenderla, ma un obolo il maltese lo vuole comunque e ne ha ben donde, visto che la storiella della sfortuna lui, uomo esperto di drink, la conosce e non la beve. Di fianco a me c’è un inglese sulla sessantina, un Mr. Smith come tanti, di quelli che vengono qui perché non devono sforzarsi a parlare una lingua barbara e possono inoltre bere fin dalle nove di mattina dolcemente spaparanzati al sole, mentre i raggi sconosciuti in riva al Tamigi tirano la pelle dei loro enormi ventri. In tutta sincerità e nessun rancore, mi fa un po’ schifo, Mr. Smith. Me ne vado, panzone baciabile della regina. How much is it? One fift…. Non ho mica capito. Non c’è molta differenza, ma trentacinque cent sono sempre trentacinque cent e Paperone ha iniziato con un solo cent. Con mano poco ferma allungo timidamente un quindici. FIFTY. Allora quando vuoi ti sai fare capire, eh? Rientro, ma prima voglio utilizzare l’ultimo curriculum che mi è rimasto. Lo appallottolo bene bene, lo stringo nel pugno e mi avvicino al pingue gatto sornione. Non si può sempre subire.

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