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Archive for the ‘Lampi di magnesio’ Category

La si potrebbe intitolare “cartolina da Napoli”, ma sarebbe riduttivo. Si rischierebbe, anzi, che la benpensante faciloneria di cui siamo oramai assuefatti ci spinga a classificare la foto alle categorie “Disagio sud” o “Questione meridionale”. In pratica, se abiti al nord la cosa non ti riguarda, se abiti al sud, sbuffi e dici “e che ci vuoi fare? Si sa, qui è così.”

No, questa foto non rappresenta Napoli, rappresenta l’Italia intera. Una terrazza panoramica in zona Posillipo, un belvedere dal quale chissà quanti di noi hanno ammirato il golfo di Napoli. Un punto di osservazione che poggia sulla miseria e la disperazione. La povertà sembra mostrare vergogna, ma anche pudore, non chiede atto di denuncia, preferisce negarsi all’occhio del turista. Non è sua intenzione rovinare le meritate vacanza del piano superiore.

E’ un’immagine che si presta a diverse letture. Essa infatti può rappresentare il passato, la miopia di un paese che non si accorse di quanto e come il mondo stesse cambiando, di come l’orticello fosse sempre più stretto e meno produttivo. Rappresenta anche il presente, un paese che dalla miopia è passato alla cecità e vorrebbe cancellare i propri errori, perché non ha il coraggio di affrontarli.

Oppure, potrebbe rappresentare il futuro, una società gerarchica dove la classe media è distrutta da un neoliberismo che non funziona, anzi, funziona per pochi con il beneplacito di molti e le persone si dividono tra chi sta sopra e non vede e chi sta sotto e non è visto.

Ed infine si può leggere questa cartolina per quello che è veramente: un aborto di hotel, uno dei tanti abusi edilizi sulle nostre coste, fermato dalla magistratura quando, purtroppo, il cemento aveva già fatto presa su un’amministrazione sorniona. Ciò che rimase fu una struttura alveolare, con le stanze già delimitate ma private di un muro perimetrale. Così i turisti si dovettero accontentare di ammirare il golfo da un tetto, invece che dalla finestra di una stanza d’albergo. Chi invece sembrò apprezzare lo scempio edilizio furono i poveracci: tutto sommato quei loculi fornivano una copertura ben migliore che un ponte.

A quanto pare è molto difficile trovare una stanza all’Hotel Disperazione. La povertà non conosce recessione.

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hindenburg

Visti oggi sembrano dinosauri, enormi antenati di velocissimi bi-quadrimotori. Eppure per tanto tempo i dirigibili, e le mongolfiere prima ancora, rappresentarono l’atavico desiderio di volare. E’ incredibile quanti rischi è disposto a correre l’animo umano per librare il corpo nell’azzurro, guardare quella terra pregna del sudore e del sangue degli antenati con la superbia di chi può stare sopra tutto e tutti, il somaro che si trasforma in aquila. Icaro e le ali di cera, Aladino e il tappeto volante, l’Astolfo dell’Ariosto in sella all’ippogrifo, perfino Leonardo, al culmine della propria boria inventiva, si cimentò nell’impresa. Dal mito all’epica, la fantasia ha sempre puntato verso il cielo. Questo fu la mongolfiera, il sogno che si tramutava in realtà dopo millenni di estemporanee idee. Ma la mongolfiera era cosa da francesi, borghesi in odore di progressismo, ma con un occhio sempre rivolto al passato. Si, volare era bello oltralpe, ma senza staccarsi troppo dalle natie terre da uva. Furono i tedeschi ad appropriarsi del volo. Il conte Zeppelin inventò il dirigibile e le distanze si accorciarono. I primi esperimenti furono disastrosi, ma il positivismo non accettava nessun passo indietro sulla stada del tecnicismo, l’arroganza teutonica ancor meno.  Con la prima guerra mondiale il mondo cambiò e nemmeno il modo di volare fu quello di prima. Inutile rimembrare quei vent’anni. Fu proprio allora, però, che quel mondo pionieristico se ne andò, sorpassato dai velivoli  yankee e dalla famosa tragedia dell’Hindenburg, che azzerò la credibilità degli aerostati. Quel dirigibile che il 6 maggio 1937 si schiantò contro il pilone di ormeggio a Lakehurst, New Jersey, non fu il peggior disastro della storia dei dirigibili, ma fu la prima tragedia a grande copertura mediatica: la foto (non è l’unica) ne è il documento principale. Vi fu pure una registrazione radiofonica dell’evento, rimasero celebri le parole del radiocronista al momento dell’impatto: “Oh, the umanity!” Già, l’umanità. Guardando la storia di lì a breve, si potrebbe dire che sia esplosa pure essa con l’Hindenburg. Che poi, altro non era che il nome dell’ultimo presidente tedesco prima di Hitler.

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Immigrato sardo davanti la torre Pirelli, 1969 (U. Lucas)

Immigrato sardo davanti la torre Pirelli, 1969 (U. Lucas)

Un uomo nato in un recondito paesino della Sardegna, cresciuto a pecorino e (poca) carne d’agnello. Esistenza grama, faticosa, sporca, senza speranza. Ma quella è, quella del nonno, del padre, dello zio, l’unica possibile perchè l’unica che si è mai vista da quelle parti. Poi un giorno, dopo secoli di tradizioni immutabili, proprio durante la tua generazione, tutto cambia. A dir il vero le pecore continuano a fare la lana, le mucche il latte, la terra quei pochi vegetali che hanno sfamato i tuoi avi. Ma qualcosa è cambiato, non nel tuo paese, forse nemmeno in Sardegna, ma nel mondo, si, tutto è cambiato. La tua lana non vale più nulla dicono, i tuoi generi alimentari non hanno più mercato e la vita che hai fatto fino allora, semplicemente, non si può più fare. Non capisci perchè le cose vadano così, nessuno te lo spiega e comunque non capiresti. Puoi scegliere, perchè in democrazia ci sono sempre più opzioni. E allora il bivio è netto: morire di fame o andarsene. E così ti sei ritrovato qui, con case più grandi di alberi, auto ovunque e solitudine, tanta solitudine. Ed ora che sei li, in quell’antinferno di calcestruzzo e motori, senza nemmeno un animale lanoso che possa in qualche modo rendere meno duro il distacco. Perchè è successo? Eravamo poveri al paese, ma stavamo bene così, s’è sempre lavorato, figliato, votato, combattuto, se si doveva. E non si capiva perchè si doveva fare la guerra, ma tutti sapevamo che c’era un nemico e allora il territorio va sempre difeso. Ma ora il nemico non c’è. Solamente qualcuno ha deciso che le nostre attività non avevano più senso di esistere. Si dice che c’è chi le cose le fa meglio di noi. Ma chi fa la lana meglio delle nostre pecore, chi lavora meglio la lana delle nostre donne? Bisognava andarsene. Ma ora? Che ne sarebbe stato dei terreni al paese? E soprattutto, che fare in quella città senza pascoli? Ci fosse stata almeno una pecora.

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Un chimico, magari quello di Spoon River reso celebre da Edgar Lee Master e cantato da De Andrè, o anche un positivista di fine XIX secolo, vi direbbe senza spocchia accademica che acqua è H2O, nient’altro che due molecole di idrogeno ed una di ossigeno, sempre. Un animista delle foreste angolane obietterebbe ad una tale blasfemia che ogni singolo oggetto, pianta e ovviamente animale del creato ha un’anima ed essa va rispettata ed in alcuni casi adorata, ergo, l’acqua è uno spirito, sia che essa imputridisca in una pozzanghera alle falde del kilimangiaro, sia che luccichi sulla costa di Zanzibar tra gli sguardi anelanti dei turisti occidentali.  Pareri, due lati di quella stessa medaglia che porta il vituperatissimo nome di libertà di pensiero. Ma io, allegro ma non troppo frequentatore di acquazzoni e grandinate varie, una domanda di tale filosofica entità la vorrei porre a chi nell’acqua sguazza ventiquattro ore al dì. Chiedetelo a questo pesce, questo membro del clan ittico che si, sguazza nell’acqua, ma nella sua mente binaria questiona sul perchè l’acqua, che sempre H2O è, abbia un sapore tanto diverso a seconda di dove tu ti trova. Le cose, qualsiasi cosa, hanno un significato ed un sapore diverso a seconda dell’importanza che queste hanno per noi. L’acqua è acqua, dolce o salata, pulita o sporca, ma per chi ci vive ci sono molte altre variabili. Una trota potrebbe chiedere ad un carcerato: di che ti lamenti, vivi nell’aria, come chiunque altro. Una bella fava, risponderà il galeotto. E’ così per tutto, un incantevole posto turistico dove gli autoctoni muoiono di fame tra gli sguardi prosciuttati dei turisti, un agognato anello di fidanzamento con tanto di diamante ottenuto dal sangue congolese. Ma le situazioni non sono immobili: basterebbe poco, una piccola spinta, per cambiare il sapore a quell’acqua. Abbiamo molto più potere di modificare in meglio ciò che ci circonda di quanto noi crediamo, basta aprire la nostra mente. Aprirla, al di là di un recinto, di vetro o di mattoni che sia.

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Non ricordo il nome della rivista da cui ritagliai questa foto, ma so, con esattezza, che correva l’anno 1995, perchè, in quell’assurdo melting pot di immagini e pensieri che è la nostra mente, l’azione di ritaglio è indelebilmente associata con l’azione successiva, la cernita delle figurine doppie donatemi da un compagno di classe. Quell’album lo conservo ancora, era il 1994/95 e, se qualcuno se lo è chiesto (io lo avrei per lo meno pensato) mi mancavano De Agostini della Reggiana, Bresciani del Foggia, Chiesa della Cremonese, gli stemmi di Lazio e Crevalcore e le foto di squadra di Lucchese, Biellese e Acireale per terminare l’album. Mai arrivato così vicino al completamento. Fatto sta che avevo solamente tredici anni e puzzavo ancora di serpente, che sarebbe a dire che dell’attualità mi interessava pressochè nulla. No, la Cecenia era probabilmente incollocabile sulla carta geografica e delle prove di forza dello zar Boris in quel di Grozny non sapevo e non volevo sapere alcunchè. Ma quella foto mi piacque, attirò il mio istinto di forzato della scuola e del bemolle, io, musico improbabile, costretto a suonare quel flauto che non mi piaceva, non mi capiva. E poi, cercando risposte emotive alla mia prima pubertà tra le avvenenti femmine delle pubblicità di Gorgonzola ed Eminflex, nelle patinate riservate all’attualità spuntava la foto di un soldato russo intento a cercare gli ultimi agonizzanti suoni di un pianoforte sfondato dalle bombe ed abbandonato da proprietari che avevano ben altro a cui pensare. Non so cosa provai allora, perchè decisi di estrarre l’immagine e collocarla nella mia galleria dei ricordi. So, però, cosa provo ora, a distanza di dodici anni e potrei dirvi che la guerra distrugge le passioni, uccide l’arte, lobotomizza i cervelli, ma non vi dirò niente di tanto banale. No, io vedo altro, vedo un bambino della periferia di Mosca cresciuto nelle grigie scuole sovietiche, dove l’insegnamento dell’arte era inculcato nella speranza di creare artisti della guerra fredda. Vedo un ragazzo che abbandona i libri e pure la coscienza civile, assiste al crollo di un muro e di un sistema che gli ha imposto di giocare a scacchi, ascoltare Rimskij-Korsakov e dire ja sempre e comunque, ma che nello stesso tempo garantiva un lavoro al padre, lavoro che poi non è più esistito, con tanta rabbia di tutti e guadagno di qualcuno. Vedo, ancora, un giovane arrabbiato, imbevuto di orgoglio nazionalista, preda di millantatori di potenze perdute, decantatori di futuri splendori e guerre di razza e religione, avidi sfruttatori di delusioni altrui. Un kalashnikov, qualche rublo ed una buona dose d’odio verso lo sconosciuto che abita le pendici del vecchio Caucaso. Ma sotto il soldato, sotto le mimetiche e le portacartucce, rimane sempre quello studente di Mosca che non riusciva a fare la scala perchè aveva le mani troppo piccole e la volontà troppo debole, mentre ora che le dita sono rese veloci dal grilletto del fucile e la volontà gli è stata forgiata in caserma, non può più farla quella scala, non puòperchè manca un tasto, un mi per l’esattezza. Allora pigia ripetutamente il do, che in verità non è un do, ma un suono metallico che di musicale ha ben poco e pensa. Pensa, ma non sono affari nostri e non ci è dato sapere cosa e perciò lasciamo pensare il ragazzo della periferia di Mosca.

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