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Archive for the ‘Ei fu’ Category

Non era la prima volta e manco la seconda. Però succedeva quasi sempre di maggio. Quel 11168124_10206500434211296_3140154991112198997_ngran mese di merda di maggio, diceva tra sé Luigi. Ma non ci credeva nemmeno lui e comunque non avrebbe avuto il coraggio di dirlo. Ci sono cose che non si dicono. Non avrebbe mai detto che non esisteva la Madonna, seppure oramai ci credeva poco e non avrebbe mai detto che maggio è un mese di merda. Perché non sono cose che si dicono. O meglio, le dicono solo alcuni, quelli a cui piace trovarsi sempre al di là della barricata e ribaltare il pensiero comune senza motivo e senza ritegno. Ma non lui. Un tempo adorava il maggio. Lo adorava nonostante il fieno da falciare, l’orto da seminare, gli zoccoli del padre da evitare. Poi qualcosa si era incrinato e niente era stato come prima.

Quando gli prendevano quelle giornate amare l’entusiasmo attorno a sé lo infastidiva. Gli pareva quasi che quelle risa e quelle bestemmie e quei colpi sordi di francesini sul balcone dell’osteria facessero parte di una grande orchestra il cui unico scopo fosse tormentargli l’anima, prenderlo per i fondello. Erano giornate in cui non sopportava che gli rivolgessero la parola, che non gliela rivolgessero, che gli offrissero da bere, che lo escludessero dal giro di bevute, che giocassero a carte, che non le estrassero nemmeno dalla busta. Poi finalmente si decideva a rompere l’incanto e prendeva le scale dell’osteria senza dire nulla a nessuno. (altro…)

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Poco è rimasto di lui: una lapide al cimitero di Groppoli di Mulazzo, ma non è qui che riposa, un albero nel viale delle rimembranze del paese, un nome scolpito su pietra e fagocitato dai licheni, un libretto fasullo in cui cita l’Eneide di 20150524_202652Virgilio, una foto – l’unica della sua vita – appesa al muro della stanza di mia nonna, sua figlia. Quando ero bambino osservavo quella foto con soggezione. L’abito militare, i garetti fasciati, un leggero strabismo, uno sguardo severo e tuttavia impaurito.

Di lui non so molto e comunque sono racconti di mia nonna. Che non lo ha mai conosciuto. Che ne sapeva poco e quel poco lo aveva saputo dalla madre nonché moglie di Vittorio, anch’essa piuttosto all’oscuro. E ad ogni modo, quel poco che sapeva non era manco vero. Tante volte ho immaginato quella povera donna piangere due volte, la prima vedendo il marito partire e la seconda vedendosi recapitare una cartolina listata a lutto. Le lacrime subito secche, i tre bambini ignari e affamati. La vita.

Morto per la patria. Di cui non avrebbe saputo vergare nemmeno la prima lettera, di cui non sapeva la capitale, il nome del Presidente del Consiglio. Vittorio non conosceva altro che la fatica e la fame. Lui che nella natia Groppoli le barelle le usava per portare le patate, arrivato sul Carso ha iniziato a caricarci uomini rantolanti, morti, gente che si teneva le budella attaccate al corpo. Le budella le aveva già viste, Vittorio. Ma si trattava di maiali, non di cristiani.

E un giorno in quella barella c’hanno portato lui, cadavere. Mia nonna diceva che lo aveva colpito una bombarda alla testa. Ma non è vero. O meglio: non si sa. Mia nonna diceva che era seppellito a Redipuglia. Ma non è vero. Quando ci andai, non lo trovai. Mia nonna diceva tante cose e quelle cose lei e la madre le leggevano in un opuscoletto che lo Stato consegnò ai familiari delle vittime. Ma non c’era pressoché nulla di vero. Vittorio che citava Virgilio. Vittorio che aveva la profondità di un Goethe. Vittorio fervente nazionalista. Nessuno aveva il coraggio di dire a mia nonna che erano tutte balle, che Vittorio era del tutto analfabeta, pratico, impaurito. Nessuno. Nemmeno lei stessa.

Ancora osservo quell’unica foto di Vittorio. Si, è proprio impaurito. Il lampo del magnesio è come uno sparo. Sorrida! avrà detto il fotografo. E poi il colpo, troppo veloce per preparare un sorriso. Qualche mese più tardi un austriaco deve avergli usato meno premura. E Vittorio non sorrise nemmeno allora. Né allora, né mai più.

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Posto un pensiero breve. Non è un ricordo e nemmeno un necrologio. Da poco se ne è andato Gabriel Garcia Marquez e il web ribolle già di citazioni e articoli copia e incolla. In dieci milioni citeranno la frase in cui si parla si parla del colonnello Aureliano Buendìa e delle sue 32 rivoluzioni perse.  Un’altra decina citerà l’incipit del romanzo. Io voglio salutare lo scrittore di uno dei miei libri preferiti riprendendo una storia, una delle tante meravigliosamente assurde di quel libro tra i miei preferiti. Senza citare.

E’ la storia del rapporto postmortem tra Josè Arcadio Buendìa e Prudencio Aguilar. La faccio breve: Prudencio, avvelenato dal rancore per la sconfitta del suo gallo da combattimento, accusa Josè di essere impotente, in quanto la moglie non ha ancora procreato. Questi lo infilza e salva così il suo onore. Ma non la sua mente. Il rimorso per l’omicidio è enorme. Josè uccide tutti i suoi galli, seppellisce la lancia, abbandona il paese di Riohacha, ma non basta perché il fantasma piangente di Prudencio non lo abbandona. All’inizio è una tortura, una presenza esasperante che solo lui può vedere, un ectoplasma che lo porta alla follia. Con il tempo, però, quella fastidiosa presenza diventa un compagno di vita. Colui che lo capisce. L’unico che lo capisce. Infine, l’unico che gli rivolge laparola. Si, perché Josè sbarella e quasi fa paura e i familiari si vedono costretti a tenerlo legato nel cortile come un cane. Josè parla solamente con Prudencio. Tutti si dimenticano del vecchio autoritario Buendia, tutti tranne Prudencio. Un fantasma come amico.

E’ un libro ostico, più citato che letto, un libro da “si, l’ho letto anni fa, ma non ricordo bene.” Alcuni lo adorano, altri si sono fermati all’impossibile nomenclatura dei Buendìa. Io, che lo lessi anni fa, da allora cerco una storia come quella di Josè e Prudencio. Storia comprimaria, dimenticata, storia di galli da combattimento, uomini, sangue, rancore, rimorso, amicizia, conflitti generazionali, solitudine. Storia di vita. Una delle tante, in fondo. Grazie Gabriel.

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Mandela

MANDELA5

La nostra paura più profonda non è quella di essere inadeguati.

La nostra paura più profonda è quella di avere un enorme potere.

E’ la nostra luce, non la nostra oscurità, che ci spaventa di più.

Ci chiediamo: “chi sono io, per credermi brillante, stupendo, pieno di talenti, favoloso?”

In realtà, chi sei tu per NON esserlo?

Sei un figlio di Dio.

Il tuo stare nel piccolo non aiuta il mondo.

Non c’è niente di illuminato nel raggrinzirti, così che le altre persone

non si sentano insicure vicino a te.

Sei fatto per risplendere, come i bambini.

Siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è in noi.

Non è solo in alcuni di noi: è in ognuno.

E quando lasciamo splendere la nostra luce,

inconsciamente diamo il permesso agli altri di fare lo stesso.

E quando ci liberiamo dalla nostra paura, la nostra presenza

automaticamente libera gli altri.

 

Nelson Mandel (18-07-1918 / 05-12-2013)

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Non è facile trattare i sogni. Nulla è più sconclusionato e irreale di un sogno. Parimenti, quanto detto vale anche per la donna. Si inizia a ricordare i sogni all’incirca alla stessa età in cui si inizia a guardare le donne. Sogni e donne, binomio molto lontano da donne e motori. No, nulla di materiale, non c’è spazio per il gas di scarico nella nebbiolina onirica. La strada della vita si percorre a piedi, è una strada disseminata di sogni e donne. I sogni eliminano il superfluo, il brutto che si annida nel futuro sconosciuto: siamo stati il meccanico senza le mani sporche di grasso, l’astronauta senza lo studio della fisica, il calciatore senza piedi, il pompiere senza il gatto sull’albero, il playboy senza portafoglio. I sogni ci accompagnano in quello strano bagagliaio che è il subconscio. E’ un fardello pesante, ma non possiamo farne a meno, così come non possiamo fare a meno di tutte le donne che abbiamo amato, desiderato, implorato, sperato e in pochi casi avuto.

La vita è un circo, diceva Fellini. Oppure il sogno di un harem, un harem dove tutte le donne della nostra vita, perfino quelle che non ricordiamo nemmeno, si prendano cura di noi, ci cullino e amino come fece la prima donna della nostra vita nel primo giorno della nostra vita. E sognammo di vivere per sempre così. Era il primo sogno e riguardava una donna.

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smile-e1341567496632Difficilmente può essere sfuggita la notizia del possibile attacco alla Siria da parte di alcuni paesi occidentali. Le cancellerie europee e nordamericane si scervellano su come e quando sferrare l’attacco al paese asiatico. Ora, non è mia intenzione aggiungere byte alla moltitudine di pensieri più o meno autorevoli che circolano sul web, o, per toccare il fondo del bicchiere, sul bancone del bar. Proprio oggi ho ascoltato un avventore di un innominato bar dire: “Siria, Siria, ma perché la menano così, tanto si sa che lo vogliono fare, no? e allora che attacchino senza rompere troppo.” E’ proprio qui il nocciolo della questione. Ciò che il cliente medievalizzato e molti altri anche più illuminati non concepiscono è il concetto di “pubblica opinione”. Se non si ha ben chiaro il significato e l’evoluzione di questo principio non si può capire perché le intelligence mondiali sudino tante camicie per trovare un pretesto (armi di distruzione di massa in Iraq, armi chimiche in Siria) da sbattere sulle prime pagine per salpare con la benedizione della nazione. Insomma, su tale concetto vorrei stendere la mia ragnatela di tasti.

Il nostro amico del bar, poco propenso alle elucubrazioni diplomatiche, sicuramente non avrebbe avuto problemi nell’ancien régime, il periodo storico precedente alla rivoluzione francese, epoca in cui i regnanti non dovevano spiegare a Tizio e Caio perché fare guerra a Sempronio. Se la città di Sempronio faceva gola, si cercava di prenderla, nessuno avrebbe contestato perché spinto da idee pacifiste o semplicemente di segno contrario. Senonché pure nei secoli bui i regnanti di ogni parte del mondo avevano bisogno di legittimare la loro privilegiata posizione, dapprima con la forza e il coraggio, poi con il “diritto divino”, quel discutibile principio per cui il potere di un monarca deriva dalla volontà di Dio. Non fu l’idea estemporanea di un re furbacchione, anzi, per convincere i più recalcitranti della bontà della teoria si scomodarono San Paolo e la “Città degli uomini” di Sant’Agostino. Non diversamente, in Giappone legittimazione dell’imperatore si basava sulla sua discendenza da Amaterasu, dea del sole.

Nell’europa riformata del XVII secolo iniziarono a circolare teorie del tutto opposte. La nuova “filosofia”, il modo di pensare basato sull’osservazione diretta dei fatti, fu applicato anche alla religione. Va da sé, il diritto divino, che in quanto ad astrazione non è secondo a nessuno, iniziò a mostrare la corda. Che fare? I monarchi più intelligenti, non a caso “illuminati”, volsero le nuove teorie a loro favore: non più ragion di stato e lo stato sono io, bensì pubblica felicità, il potere deve essere esercitato nell’interesse comune dei sudditi. Ripeto: interesse comune dei sudditi, non interesse privato dello stato. Qual’era poi l’interesse dei sudditi, ovviamente, lo decideva il re. Tuttavia le maglie si allargarono, nacquero nuovi spazi di aggregazione e comunicazione come salotti e accademie, si stamparono giornali. Certamente al povero cafone che doveva mescolare la polenta bigia come il Tonio dei Promessi Sposi, di tutto questo scrivere e parlare non importava un fico secco, manco sapeva leggere. E’ però in questi anni a ridosso della rivoluzione che nasce il concetto di “pubblica opinione”, ovvero il giudizio del popolo, il modo di pensare collettivo della maggioranza dei cittadini. Nei secoli successivi in nome di essa ci sarà chi si immolerà, mentre altri preferiranno ritornare al buon vecchio capo che decide per tutti senza troppi discorsi, altri ancora porteranno l’idea di partecipazione collettive all’estremo, finendo per cancellare proprio l’opinione pubblica. Ai giorni nostri la pubblica opinione è, nei paesi democratici, garantita dalla costituzione (art. 21 costituzione italiana). Per fartela breve, caro opinionista dell’espresso Lavazza, se Obama non può fare quel cavolo che gli pare è perché non è stato piazzato alla Casa Bianca da Zeus o da suo nonno Amurabi, ma (si spera) da quella pubblica opinione che lo ha scelto esercitando il diritto di voto.

Non hai capito? E dire che a votare ci vai… Maledetta democrazia…

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Ci ho pensato a lungo. Per intenderci, non meno di un minuto e quaranta secondi. Dite che è poco e così ci fan solo quelli che agiscono senza riflettere? Ma io ho riflettuto un’oretta buona! Si, lo so, c’è qualcosa che non funziona. Quando ci si volta indietro i conti sfuggono sempre. Quando si tenta di riordinare le fila nel nostro passato, c’è sempre qualcosa che non torna. E’ una lunga equazione matematica, di quelle inzuppate di segni più e meno che basta dimenticarne uno e le carte non sono più quaranta. Insomma, non so bene quanto ho pensato e cosa ho pensato.

Ripartiamo. E’ morto Ray Manzarek, tastierista dei Doors. E’ molto tempo che non ascolto un album dei Doors, forse tre o più anni. Quando avevo diciotto anni ascoltavo i Doors almeno due tre ore al giorno. Tutti i santi giorni. Era quella fase in cui si esce dall’adolescenza e la vita ti sbatte in faccia qualche responsabilità. Non troppe, a dir il vero, c’è pur sempre la cappa genitoriale che ti protegge come fa il mediano con il numero 10. In ogni caso, quanto basta per sentire quella sensazione di spaesamento che a volte si tramuta in vuoto. Quanti vuoti percorrono la nostra esistenza, si nasce cadendo nel vuoto, si sperimenta lanciandosi nel vuoto perchè non c’è tempo di fare altrimenti. Ma il vuoto è brutto, è una parola che si associa ad altre parole negative: solitudine, lontananza, incomprensione. Il vuoto ci separa dal resto, da quello che vorremmo ma non è, da quello che vorremmo essere ma in verità non siamo. Ci sono tanti modi per tentare di colmare quel buco. Io trovai i Doors. Non tanto Jim Morrison, la cui personalità strideva e stride tutt’ora con la mia, ma i Doors, la loro musica sognante e obnubilante, una rassegnata carovana di nuvole che usavo come tappeto per non guardare giù, dove c’è il vuoto.

Ed ora tutto ciò fa un pò di tenerezza. Forse non ascolto più i Doors da così tanto perchè quella tastiera di Ray Manzarek mi suggerisce che non è più tempo, che non ne ho più bisogno. E in fondo è così, o si continua a mettere il piede a terra e guardare com’era bella la strada in pianura o prima o poi quella salita va affrontata e quanto più il dislivello sale è necessario lasciare zavorre lungo il percorso.

Nel mio percorso non ho potuto fare altrimenti. Dentro me non vi ho dimenticato. Continuate ad accendere quel fuoco. Visto da qualche tornante più in alto, è un bellissimo spettacolo.

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Talleyrand-Principe-di-Benevento-1787

“Il diavolo zoppo”, “Il Camaleonte” e “Lo stregone della diplomazia”. C’è poco da fare, si abusa di soprannomi quando non si riesce a disarcionare il fantino. E Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, I Principe di Benevento, uomo buono per tutte le stagioni, non lo disarcionò nè Robespierre, nè Metternich. Nobilissimo, ricchissimo, reazionario, rivoluzionario, Bonapartista e infine restauratore e ancora rivoluzionario. Fosse stato un finanziere, questo politico con problema di zoppia  alla gamba destra sarebbe stato uno speculatore nato, uno di quelli che fiutano l’aria e vendono tutto un minuto prima del crack, lasciando gli incauti compagni di cordata arrovellarsi nell’inferno della bancarotta. Nessuno ha mai visto cadere in disgrazia tanti ex amici, nessuno è mai riuscito a cambiare tante volte il colore mantenendo invariata la lucentezza. Principe e vescovo, inizia sotto l’ancien règime la sua carriera come agente generale per il clero di Francia, una sorta di Ministero delle Finanze. Nel fatidico 1789 Talleyrand non si fa trovare impreparato. Eccolo allora trasformarsi in rivoluzionario, redigere parte della nuova costituzione e superare con il collo indenne il periodo del terrore giacobino. Tornato da missioni estere (utili più che altro a evitare la follia purificatrice di Robespierre) si infila nel successivo direttorio e ottiene un Ministero per gli affari esteri sotto l’impero Napoleonico. Furbo come nessun altro, durante quel periodo, forse odorando la futura sconfitta, inizia a crearsi, grazie al suo ministero, una fitta rete di relazioni estere. Quando la Francia cadrà, austriaci e inglesi sapranno a chi rivolgersi. Al Congresso di Vienna è protagonista assoluto: rappresentante della Francia, giocando sulle divisioni in seno alle altre potenze, ottiene condizioni favorevoli per il suo paese. Fine? Non ancora. Nel 1830 è protagonista della Rivoluzione di luglio, i moti conclusi con la cacciata di Carlo X e l’incoronazione di Luigi Filippo.

Ritiratosi poco dopo quegli eventi, terminava così da rivoluzionario la sua straordinaria carriera.

Anzi no. Al momento dell’estrema unzione, il moribondo Talleyrand dice al parroco con ormai flebile voce: “non dimentichi che sono un vescovo.” La vecchia volpe si stava già preparando il terreno per una carriera nell’aldilà.

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“Ci sono nella vita di una città dei momenti irripetibili, un pò come la fioritura dei ranuncoli di cui vi dicevo sul col Birone, i momenti in cui tutto sembra andare per il verso giusto, per le giuste convergenze. Poi a quel consenso spontaneo sono subentrate le pubbliche relazioni, tutto si è burocratizzato, specializzato, separato, al posto di quella società omogenea ne sono arrivate altre a isole separate, neppure la prima della Scala, neppure la premiazione degli “Ambrogini d’oro” ci riportano a quel momento sociale magico.” (da G. Bocca, “Il provinciale”).

Ogni volta vado a Milano e il treno si insinua tra quei quartieri postbellici penso a quella città degli anni cinquanta e sessanta, ai suoi personaggi, artisti, delinquenti gentiluomini, poveracci, perdigiorno,  terroni con la valigia di cartone, imprenditori che conoscevano la fatica ma non la borsa. C’è chi dice che le migliori menti siano prodotte dai momenti di crisi e portano ad esempio l’Italia del cinquecento uscita dalle terribili guerre d’Italia. E’ vero, ma in parte. Quella Milano in odore di progresso sfornava e recepiva talenti. Un fenomeno non più ripetibile. Si potrebbe controbattere, non a torto che alcune città come New York hanno oggi una grande scena culturale e attirano piccoli e grandi artisti. Non c’è però nulla di spontaneo in questo, si va a New York perchè la ci sono i soldi e i businness di produttori, case discografiche, editrici, l’arte è spesso ridotta a happening ricchi di nomi, ma scarsi di idee. C’è molto di valido nel mondo underground, ma rimane un circuito ristretto e la mentalità imperante del guadagno e basta non ne consente l’emersione. Se domani la città “in”, quella in grado di spendere più soldi e patinare la vita, sarà Mumbai, tutti andranno là. Ma sono i soldi a muovere l’arte, non l’anima delle città e delle persone che le vivono. Quella Milano usciva dalla dittatura e dalla distruzione della guerra. Non aveva più nulla, mancavano case e cibo. Eppure aveva la speranza e il futuro, c’era l’idea condivisa che il peggio fosse passato e ora si poteva finalmente costruire qualcosa di positivo. Non sono i momenti di crisi o di contro, di grande prosperità economica a creare artisti, ma la speranza e le idee rivolte al futuro. Si stava bene quando si stava peggio? Forse. Sicuramente si stava meglio quando era più confortante guardare avanti che indietro.

Gaber e Jannacci furono forse i più bravi cantori di quel grande mondo antico. E’ un modo di vivere e intendere l’arte e la cultura che se ne va, rimpianto, per assurdo, anche da chi non l’ha vissuto. Forse un giorno guarderemo al futuro con più coraggio e speranza e allora avremo altri Strehler, Gaber, Jannacci, Bianciardi, Guttuso e tanti altri perdigiorno non meno importanti. Anzi, ho un momento di sconsiderato ottimismo e mi sembra di intravedere qualcosa…. si mi sembra di aver visto qualcosa….  Sa l’ha vist cus’e`? – Ha visto un re! – Ah, beh; si`, beh. 

 

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“Voglio un chilo di pane ed un fiasco di vino”. La frase della semplicità. Una semplice felicità di primavera emiliana. Più avanti si dirà: “Quanto costa una mela? – Costa un sacco di botte – Se mi faccio picchiare un pochino, la darebbe al bambino. Se la metterà in testa senza neanche capire, così lei con le frecce si potrà divertire.” Il sogno finisce e la realtà irrompe. Ma scherzosa, certo, non sia mai, perchè comunque è sempre bella. La vita.

Questo vuole essere solamente un ricordo. Un ricordo o un buon compleanno. Non amo fare elegie e perciò gli inusitati complimenti li lascio a chi di dovere. Ciò che mi piaceva di Lucio Dalla era la sua emilianità, quella capacità di coniugare l’eccentricità dell’artista e la normalità dell’uomo. Non ci sono Sunset boulevard in riva al Po, il capriccio del riccone non è considerato bene sulla Via Emilia. Pazienza i capelli colorati e gli orecchini, passi pure una leggera ostentazione di proprietà, magari anche un pò di puzza sotto il naso (non troppa), ma l’uomo deve rimanere ciò che è stato, figlio della terra, delle balere, cantante da fondi e da lambrusco. Da bravo emiliano amava i motori, a cui dedicò quello splendido album che fu Automobili, in cui Nuvolari fu innalzato a eroe al di fuori della bieca realtà, oltre quegli “alberi della strada che strisciano sulla biada, sui muri i cocci di bottiglia si sciolgono come poltiglia tutta la polvere e’ spazzata via.” Pochi sapevano prendersi in giro come Dalla. Lui, che bello proprio non era, cantò in quel capolavoro che è Com’è profondo il mare: “Intanto un mistico forse un’aviatore inventò la commozione e rimise d’accordo tutti i belli con i brutti con qualche danno per i brutti che si videro consegnare un pezzo di specchio così da potersi guardare.”

Allora Buon compleanno, chiunque tu realmente fosti.

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