Non era la prima volta e manco la seconda. Però succedeva quasi sempre di maggio. Quel gran mese di merda di maggio, diceva tra sé Luigi. Ma non ci credeva nemmeno lui e comunque non avrebbe avuto il coraggio di dirlo. Ci sono cose che non si dicono. Non avrebbe mai detto che non esisteva la Madonna, seppure oramai ci credeva poco e non avrebbe mai detto che maggio è un mese di merda. Perché non sono cose che si dicono. O meglio, le dicono solo alcuni, quelli a cui piace trovarsi sempre al di là della barricata e ribaltare il pensiero comune senza motivo e senza ritegno. Ma non lui. Un tempo adorava il maggio. Lo adorava nonostante il fieno da falciare, l’orto da seminare, gli zoccoli del padre da evitare. Poi qualcosa si era incrinato e niente era stato come prima.
Quando gli prendevano quelle giornate amare l’entusiasmo attorno a sé lo infastidiva. Gli pareva quasi che quelle risa e quelle bestemmie e quei colpi sordi di francesini sul balcone dell’osteria facessero parte di una grande orchestra il cui unico scopo fosse tormentargli l’anima, prenderlo per i fondello. Erano giornate in cui non sopportava che gli rivolgessero la parola, che non gliela rivolgessero, che gli offrissero da bere, che lo escludessero dal giro di bevute, che giocassero a carte, che non le estrassero nemmeno dalla busta. Poi finalmente si decideva a rompere l’incanto e prendeva le scale dell’osteria senza dire nulla a nessuno.
Così era andata pure in quella sera di maggio. Camminare tra le graminacee oramai alte lo rilassava, seguire la cresta degli appennini gli affievoliva la morsa sul petto. Un nodo però rimaneva, non foss’altro perché oltre quei monti c’era l’Emilia e oltre l’Emilia le Alpi, la Svizzera e infine la perfida Germania. La Germania sempre là stava. Da qualche parte, oltre quegli appennini, quegli anni di prigionia continuavano ad esistere. Forse quel campo di concentramento era divenuto una scuola e forse davvero i tedeschi si erano fatti gente per bene come si diceva in giro, ma a lui non era dato dimenticare le botte, le umiliazioni, la fame. La fame. Quello aveva patito maggiormente in quei due anni di prigionia in Renania-Westfalia: la fame. Lui che nella fame più nera c’era nato e col sudore e gli insulti da parte di caporali italiani, svizzeri, francesi ne era uscito, una sera di maggio del 1945 si era ritrovato a contarsi le vene delle braccia e le ossa della mascella. Non c’è cosa più difficile che percorrere scalini camminando all’indietro, gli scappava detto ogni tanto all’osteria.
Camminò a lungo con una spiga tra i denti, senza perdere di vista quella grande barriera difensiva che erano i suoi monti. Costeggiò il canale che attraversava il paese e si ritrovò a fianco un mucchio di letame. Letame fa rima con fame, pensò. Si chinò verso il cumulo appoggiando le mani sulle ginocchia. Chiunque altro avrebbe trovato insopportabile quell’odore, ma non lui. Lui non più. Il letame aveva perso l’odore di merda. La fame, quella è merda, non il letame.
Si sedette davanti al cumulo, allungò le mani e prese una buccia di patata. Sarebbe riuscito a mangiarla come aveva fatto allora? Si portò la buccia all’altezza della bocca semispalancata, ma l’istinto gli serrò le fauci in tempo. Tentò nuovamente ma non c’era possibilità di mettere in bocca quello schifo. Eppure allora non si era fatti troppi problemi. La fame, l’unica vera merda è la fame, si disse.
Rimirò la buccia. Non sarebbe forse stato meglio accettare di ritornare a combattere per l’esercito italiano? Cosa aveva ottenuto con quei dinieghi? Qualcuno gli aveva forse detto grazie? Oppure gli aveva offerto un posto di lavoro, una volta tornato in patria? Una folata di vento lo colse nella schiena sudata e un brivido percorse la ragnatela dei nervi e trafisse il cervello. Gli parve di sentire alcuni passi e si voltò di scatto trattenendo un grumo di respiro nello sterno. Ma non c’era niente di cui aver paura. Così come non c’era niente di cui aver paura nel suo letto di casa, eppure ogni anno, quando giungeva maggio, il giaciglio gli diveniva nemico, i sogni si facevano minacciosi, i ricordi erano staffilate. Gli capitava spesso di sognare quella volta in cui ruppe la punta di un trapano e lo portarono in una stanza buia. E’ la fine, si disse, e invece no, invece continuò a vivere, ma con la schiena dilaniata dai colpi di bastone e un paio di lividi che a distanza di anni non erano ancora scomparsi.
Si alzò. Le gambe scricchiolavano, la schiena gemeva. Per il sudore, per il vento, per le sprangate. Conservò in mano la buccia di patata mentre lentamente guadagnava casa. Offrì la buccia ad una cane che gli passava di fianco. Non la annusò nemmeno. Cane di merda, sussurrò piano, senza convinzione. Perché quel cane avrebbe dovuto mangiare la buccia di una patata? Solamente perché lui vi era stato costretto da una guerra immonda e dai nazisti infami? Era una sera di maggio del 1945. La guerra era oramai finita, il campo di concentramento per internati militari italiani liberato. Lui vagava per la brutta campagna tedesca. Aveva una fame pazzesca e si gettò su un mucchio di letame. Mangiò le bucce di patate. Quando si ricordò di essere stato un tempo un uomo alzò la testa e vide una contadina tedesca a pochi metri di distanza. Non era meglio in arnese di lui. Lo guardava stanca, le guance incavate, le vesti lise, la fronte invecchiata. Non c’erano né rabbia né compassione nei suoi occhi, erano solamente lo specchio di cinque anni di guerra. Erano occhi vuoti, secchi. Ogni maggio di ogni anno che era passato da allora era sprofondato nel letamaio dei ricordi e ogni volta era ripartito da quegli occhi neutri che lo avevano guardato senza giudizio.
Era una sera di maggio quando fu liberato dal campo di prigionia tedesco. Quasi due anni di reclusione che sarebbero potuti terminare dopo il primo giorno. Bastava dire si, torno a combattere per la Repubblica sociale italiana. Non lo fece. Perché la guerra faceva schifo, perché quelli lì erano farabutti e lui aveva visto cosa facevano in Jugoslavia, perché in fondo sperava di diventare un eroe, perché le montagne gli consigliarono di no. Lascia stare, Luigi. Prenditi la fame e le botte. Le montagne, le sue montagne di Lunigiana, non lo avevano mai abbandonato.
Ancora adesso, nelle sere di maggio, le montagne erano lì a dirgli che giugno sarebbe arrivato e la Germania si sarebbe allontanata. Il sole lambiva di arancione oramai solamente le cime più alte, la buccia di patata si era oramai disintegrata nella sua mano sinistra. Pensò di gettarla, ma non lo fece. Decise invece di conservarla come ricordo per il maggio successivo.
Quando la Germania sarebbe tornata a fargli visita. Allora avrebbe guardato quella buccia di patata e si sarebbe ricordato di non essere mai stato uomo come quella volta che mangiò le bucce di patate di un letamaio tedesco. Avrebbe fermato l’odio ancora una volta, con un altro no, grazie. E se anche non ci sarebbe riuscito, i monti lo avrebbero comunque protetto.
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