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Posts Tagged ‘Parma’

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All’osservatore che vorrà staccare ogni tanto lo sguardo dallo smartphone, ogni luogo presenterà un interessante campionario del genere umano. Non sono da meno i musei e in particolar modo le mostre, grandi aggregatori di fauna variopinta e dai molteplici interessi, non sempre coincidenti con il materiale esposto. Ecco un piccolo saggio di quello che un guardiano di mostra (il sottoscritto) ha potuto osservare durante qualche mese di servizio. Ripeto, solamente un piccolo saggio. Osservare per credere.

LO SFACCENDATO: Lo sfaccendato è alquanto selettivo. Niente mostre estive e soprattutto niente mostre a pagamento. Si presenta nelle prime ore del mattino se pensionato, nelle ultime della sera se di mezz’età, mai se sotto i quarant’anni. Allo sfaccendato non frega un fico secco di quanto belle siano le opere che esponete, potreste presentargli la dama con l’ermellino che si limiterà comunque a leggere la didascalia ed esclamare “Mah…” Poi si volgerà verso la vostra persona e si lamenterà della temperatura. Si, al bar fa più caldo. Ma al bar, anche per un misero caffè, vogliono un euro, caro sfaccendato.

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Carmine il guardiano infila la chiave e apre il cancello. Si chiede a cosa possa servire chiudere ogni santissima sera un cancello di un metro di altezza, pure un bambino lo può scavalcare. Sbadiglia e si accende la seconda sigaretta della giornata. Si massaggia le guance cercando tepore nello sfregamento. E’ ancora ottobre ed è già inverno. Pessima stagione. Carmine sputa in terra ed inizia il suo giro di perlustrazione. Per prima cosa si dirige verso la pagoda. Oggi Dimitru non c’è e probabilmente non lo si vedrà più da quelle parti fino ad aprile. Povero Cristo, pensa Carmine, tutte le notti all’addiaccio, d’estate in un parco e d’inverno? D’inverno lo sa la Provvidenza dove lo mette. Il solo pensiero lo fa rabbrividire. Prega per lui, prega che qualche comunità lo accolga per l’inverno prossimo. Alla Tv dicono che sarà terribile e Carmine sa che al giorno d’oggi quelli del meteo non sbagliano mai. Non c’è nemmeno Hasan, ma di lui a Carmine interessa poco. Hasan è uno stronzo, ha detto ieri Carmine a Dimitru dopo un diverbio. E pure Dimitru, che è talmente buono da condivide il poco pane con i piccioni, ha dovuto ammettere che si, Hasan è proprio uno stronzo. Il brutto di questo lavoro, pensa Carmine, è avere a che fare con gente come Hasan. Sempre meglio che vent’anni fa, però, quando, ancora ragazzo, salì in questa città dalla natia Caltanissetta. Allora i parchi erano infestati di siringhe e al posto di Hasan e Dimitru c’erano tossici con volti cadaverici e vomito ovunque. Ogni mattina, mentre percorre il sentiero dei cedri, Carmine pensa al suo terzo giorno di lavoro: 4 settembre 1992, terzo cedro a destra, ragazzo di vent’anni, biondo, deceduto, segni particolari: siringa ancora conficcata nel braccio destro. Carmine conserva ancora il trafiletto di giornale, c’è il suo nome e la sua testimonianza riassunta in due righe. Carmine in quei giorni chiamò due volte Caltanissetta. La prima per raccontare la macabra scoperta: “Mamma, ho l’immagine del ragazzo impressa nella testa. Come potrò dormire più?” La seconda per raccontare dell’articolo: “Mamma, ti mando la fotocopia, c’è il mio nome sul giornale mamma!”

Le foglie cadono. C’era una poesia che diceva qualcosa sulle foglie e l’autunno, ma Carmine non ricorda. Ricorda un disegno, forse era nel sussidiario, c’era un filo spinato e un soldato in lontananza. Era una bella poesia. Una poesia è bella quando la ricordi nei momenti più improbabili, come ora, pensa Carmine mentre spazza il viale dei castagni. Carmine ha la terza media e non si rammarica di non avere studiato. La sua filosofia è pratica: studia chi ne ha le capacità e le possibilità economiche. A Carmine mancavano entrambi. Va bene così, non serve lamentarsi, anzi, poteva andare peggio. Se non era per il prete che mi trovò questo posto al nord, pensa Carmine mentre raccoglie i rami caduti, chissà dove sarei oggi. Forse in galera, come il cugino Vito, forse a lavorare in nero per due euro e cinquanta all’ora, come suo fratello Nicola.

I vecchi sono i primi ad arrivare. Alle nove le panchine migliori, quelle esposte al sole, sono già tutte occupate. Giovanni legge il giornale e non si preoccupa di ciò che accade attorno. La Carla è invece molto loquace, ma non sa ascoltare, è una di quelle persone che non concepisce la funzione della comunicazione. Carmine ha letto su una rivista che la comunicazione è di due tipi, da un mittente a un ricevente, ad esempio la Tv e tra due entità entrambi mittenti e riceventi, come nel caso di due persone a colloquio. Carmine ha subito pensato alla Carla, si è chiesto se, per caso, avesse lavorato in Tv o alla radio. Ma poi si è ricordato che lavorava in una fabbrica di conserve. Già, quante volte l’ha ripetuto, pensare che lui non è mai riuscito a fargli intendere di essere siciliano.

Beppe arriva intorno alle dieci. Beppe è un vero signore. E’ vedovo, ha perso la moglie due anni fa, un brutto male. Ha un figlio, ma vive in Australia. Beppe è rimasto solo. Lavorava in banca, quando le banche erano fatte di uomini, come ama ripetere a chiunque incontri. Beppe parla volentieri con Carmine. Capita che l’ex bancario lo segua addirittura nei suoi lavori nel parco per continuare a conversare. A Carmine si gonfia il cuore: nessuno gli ha mai conferito una tale importanza. Si ripete sempre che lo deve dire a mamma, mamma un bancario che mi segue fin nella latrina per godere della mia compagnia! Ma poi si dimentica sempre. Con Beppe si parla di Sicilia, lui c’è stato tre volte ma mai a Caltanissetta, si parla di politica, Carmine ne capisce poco, ma è cosciente che il partito migliore sarà quello che gli suggerirà Beppe.

Alle undici arrivano le madri con i bambini a passeggio. A volte sono i padri ad accompagnare i passeggini. Carmine ha notato che negli ultimi anni sono sempre di più gli uomini che fanno le mamme. Questo non lo capisce proprio. Va bene la modernità, ma ci sono lavori da maschi e lavori da femmine. Non c’è da meravigliarsi, come diceva la nonna Angelina, undici figli, il mondo è una ruota che gira, ma non si torna mai al punto di partenza.

All’una finisce la scuola e una fiumana di scolari si riversa nel parco. Fanno un gran casino e spesso non si comportano bene. Capita che rompano qualcosa e Carmine debba ripararla. Ma Carmine gli vuole bene lo stesso. Gli piacciono i bambini e vorrebbe averne uno. Beppe gli chiede “Cosa aspetti? Hai quarant’anni suonati” e allora Carmine risponde sempre allo stesso modo: “I bambini si fanno in due. E io sono solo.” E quindi sorride e si accende una sigaretta.

A Carmine non piacciono molto le badanti dell’est. Arrivano al parco con i loro assistiti e blaterano al telefono le loro lingue incomprensibili, si siedono sulle panchine e parlano tra loro, rientrano verso casa e parlano di nuovo al telefono. La peggiore è la badante della Luisa. Quella povera elemosina parole perfino ai bambini. Nessuno parla con Luisa, non ci parlano i figli che hanno altro da pensare e soprattutto non ci parla la sua badante. Carmine ne ha discusso con Beppe. Lui dice che bisogna cercare di capire anche queste badanti, sono donne sole in terra straniera, il lavoro è pesante e un discorso nella tua lingua madre è spesso l’unico rimedio alla frustrazione. “Sai, Carmine, spesso sono persone istruite e devono andarsene perché i loro paesi sono poveri come la tua bella Sicilia, Carmine.” Ma Carmine dice che la sua Sicilia è differente. Un giorno, per dimostrarlo, ha chiamato sua sorella Annunziatina e gli ha proposto di venire al nord per fare la badante. Annunziatina ha rifiutato, ha detto che non fa per lei e che per quei lavori lì ci sono le donne dell’est. Carmine ci è rimasto male. Del resto Annunziatina è deficente, lo ha sempre pensato. In ogni caso, il lavoro è sempre lavoro e quelle badanti sbagliano. Se non gli va bene assistere gli anziani, possono tornare da dove sono venute. Ma questo a Beppe non lo dirà.

La badante della Lisetta è differente da tutte le altre. E’ una ragazza affettuosa, non parla molto bene l’italiano, ma sa ascoltare. Senza dubbio finge, pensa Carmine, ma lo sa fare bene e alla Lisetta, in fondo, basta questo. E’ una ragazza moldava, un po’ in carne, ma con lineamenti delicati e due occhi azzurri profondi come il mare di Sicilia. A Carmine piace guardarla di nascosto, mentre si occupa del suo lavoro. Ieri Carmine ha staccato una rosa dal roseto per lei, ma poi non ha avuto il coraggio di dargliela. Tornato a casa si è maledetto, rischiare un rapporto sul lavoro per nulla. La notte, prima di dormire, Carmine pensa a lei. Ne ha parlato con Beppe. Lui dice che il tempo è prezioso e che deve prendere il coraggio a due mani e lanciarsi. Ma Carmine non ha esperienza, le donne gli mettono timore. Allora Beppe ha detto che lo avrebbe aiutato, che sarebbe andato a parlare con la Lisetta e così avrebbe stabilito un contatto con la ragazza. “E’ una tecnica di guerra” ha detto Beppe sogghignando “si chiama testa di ponte.” Carmine non ne vuole sapere, un vero uomo deve prendersi le proprie responsabilità, punto e basta. Ma i giorni passano e il coraggio non arriva. C’era un prete che diceva qualcosa come “il coraggio chi non lo ha non se lo inventa.” Che libro era? si chiede Carmine.

Carmine torna a casa alle otto in punto. Abita in una mansarda nel centro storico, poca luce, poca aria e tanta polvere. Spazzare e togliere le ragnatele non è cosa da uomini, ma femmine per casa non ce ne sono e qualcosa deve fare. Poco, a dire il vero, quanto basta per non vivere in un porcile. Carmine posa la forchetta sul piatto vuoto. Rutta l’insipido sugo pronto e spegne la Tv. E’ stufo, si, è stufo della Tv, della pasta con il sugo pronto, è stufo di spazzare in terra e di lavare i pavimenti. E’ stufo, soprattutto, di passare tutte le sere da solo, nell’attesa che venga il mattino e possa chiacchierare con Dimitru e Beppe.

La solitudine è un sugo che all’improvviso scopri insipido, una conduttrice che non ha più nulla da far vedere. Di chi era questa frase? Carmine non ricorda. Se avesse più fiducia in se stesso, non avrebbe problemi a rispondere: è mia, io sono il poeta. Ma Carmine, davanti allo specchio e davanti al mondo, è solamente il terrone guardiano del parco. Non gli è richiesto pensare, ma spazzare. Così ha deciso di dare il consenso a Beppe. Ma si, che parli con Lisetta e faccia da “testa di ponte” per arrivare alla badante. Beppe è un signore, saprà sicuramente il da farsi. Ecco, magari Carmine chiederà a Beppe di dedicargli, da parte sua, quella frase sulla solitudine che gli è venuta in mente prima. E’ così bella. Beppe la conoscerà sicuramente.

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“Correre allora, la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia incontro alle colline e alle montagne oppure verso i fiumi e le bonifiche e i canneti. Poi tra Reggio e Parma lasciare andare il tiramento di testa e provare a indovinare il numero dei bar, compresi quelli all’interno delle discoteche o dei dancing all’aperto ora che è agosto e hanno alzato persino le verande per godersi meglio le zanzare e il puzzo della campagna grassa e concimata.” (P.V. Tondelli, Altri Libertini.)

Nelle righe successive l’autore dirà di aver perso il conto dopo il trentatreesimo bar. Considerati i venticinque chilometri che separano le due città e che, a differenza del nord oltrepò, qui gli spazi vuoti esistono ancora, non si può dire che manchino le tappe per un bicchierino. La via Emilia è una linea, una di quelle rette che gli scolari tracciano alle scuole medie unendo i punti, che in questo caso si chiamano Parma, Reggio, Modena e Bologna. Non è una semplice strada, è un’aorta dove non scorrono auto, telonati e caravan, ma storie e idee. La Via Emilia è qualcosa che non fa parte del territorio, la si può sfilare insieme alle sue città come le linguette della plastica delle sigarette. E’ li, a metà tra il Pò e le colline, da prima ancora della fondazione delle sue città. Ha subito la concorrenza dell’autostrada del sole, che ne ha copiato il percorso e rubato il traffico, ma non ne ha potuto scalfire il prestigio e si è dovuta accontentare del ruolo comprimario di vena safena. Abituati alla sua tagliente presenza, gli abitanti ne hanno interiorizzato la presenza, hanno sviluppato una coscienza simile a quella delle popolazioni fluviali, dividendosi tra emiliani del nord, quelli della pianura, ed emiliani del sud, dalle colline alle montagne. L’Emilia, la grande strada che quando l’attraversi ti volti a destra e sinistra infinite volte e non sai che non sono le macchine a richiedere da te tanta attenzione, ma la strada stessa, la Via. Qui si ferma la nebbia del nord, quell’opprimente nuvola padana dall’odore inconfondibile, inconsistente al tatto ma non ai capelli, quello strano fenomeno che sembra accerchiarti senza toccarti, lasciando sempre un metro tra te e lei. Chissà, magari è proprio la nebbia ad insinuarsi nelle narici di mucche e maiali e rendere latte e carne così buoni. Tra l’altro, cosa sarebbe l’Emilia senza i suoi insaccati, il suo Lambrusco di pianura o di collina, le sue specialità che non si possono mangiare o bere da soli. Tutto in Emilia spinge alla socialità: il cibo, gli spazi aperti, le miriadi di piazze delle sue città e paesi, le strade porticate che costringono i passanti ad incrociarsi, le centinaia di bar che spingono quegli stessi passanti appena incrociatisi a suggellare l’incontro con un bicchiere di quello buono.

Ecco, perfino il lavoro un tempo era organizzato in gruppo. Ancora oggi è possibile vedere nella campagna emiliana le corti, architetture chiuse su se stesse con un grande spazio centrale dove si svolgeva la vita quotidiana. Fu questo modo di lavorare a stretto contatto tra pari a rendere questa terre fertile alla diffusione del verbo socialista. Altrove, come a Carrara, il lavoro solitario spinse il cavatore verso l’anarchismo individualista, ma qui no, qui nacquero leghe di contadini, società di mutuo soccorso, cooperative e circoli operai. L’Emilia rossa, dei contadini ribelli, dei parmigiani antifascisti che sbeffeggiarono Italo Balbo per la sua mancata conquista della città nel 22 con la scritta “Balbo t’è pasè l’Atlantic mo miga la Perma”, l’Emilia dei partigiani reggiani e modenesi che avevano preso così sul serio la lotta della resistenza da non mollare le armi e cercare a modo loro il sol dell’avvenire. Ancora povera e contadina nei primi anni del dopoguerra, l’Emilia conobbe un incredibile sviluppo economico nei decenni successivi, accompagnato da una grande fertilità sul piano culturale. Sono anni da vetrina per l’Emilia, unico modello conosciuto e riconosciuto di socialismo e ricchezza, lavoro e capitalismo in salsa rossa. Auto, moto, formaggi, latte, le fabbriche sfornavano prodotti famosi nel mondo e le feste dell’Unità riunivano le famiglie attorno ad una balera.

Poi arrivarono gli americani, che non erano più i soldati bianconeri dello zio Sam, ma avevano una chitarra al posto del fucile e scrivevano canzoni che i figli della guerra emiliana recepirono come nessun altro in Italia. Fu così per il beat, il folk e qualche anno più tardi il punk. Ma il giocattolino iniziava ad incepparsi, l’Emilia iniziava ad ingrassare e a molti, così com’era, iniziava a non piacere più.

Nel momento del suo massimo consenso, dopo il record alle politiche del 1976, il Pci conosceva la contestazione “da sinistra”. Non era la prima volta che accadeva, anche il 1968 aveva creato grattacapi, ma qui c’era qualcosa di diverso, uno scontro generazionale tra un partito che non si rinnovava e giovani che chiedevano qualcosa di nuovo, tra desiderio di novità, frustrazione da consumismo e imitazione di movimenti d’oltremanica. Immaginate cosa avrà pensato l’intoccabile Luciano Lama, ex partigiano, comunista convinto nonchè mammasantissima della Cgil, quando fu contestato a Roma dagli universitari. Indiani metropolitani si chiamavano i movimenti del 77, quelli che cantavano dieci cento mille Big Horn, quelli che facevano della creatività il non plus ultra, quelli da cui nacquero i centri sociali, luoghi che con la filosofia emiliana centrano poco.

Emilia paranoica o rozzemilia, il risultato non cambia: il benessere negli anni ottanta ha preso una tinta fosca, l’Emilia sembra aver perso la sua identità. Dice Guccini in “Bologna”:

“Bologna e’ una ricca signora che fu contadina
benessere ville gioielli e salami in vetrina
che sa che l’odor di miseria da mandare giu’ e’ cosa seria
e vuole sentirsi sicura con quello
che ha addosso perche’ sa la paura.”

Ecco, forse questa è la miglior descrizione dell’Emilia ai giorni nostri: terra di aratri e bestiame, di fabbriche d’auto e di fame, terra arricchita troppo in fretta per poter assimilare il cambiamento.

Intanto la Via Emilia sempre li sta. Lei, che di cose ne ha viste tante vi dirà che comunque un posto come quello non lo trovate. Andate per il mondo e fate ciò che meglio vi aggrada, ma prima o poi l’odore di letame vi ricondurrà a casa. Forse, come disse un montanaro modenese, quella voglia di vivere che allora c’era oggi non c’è più, ma prima o poi ci troveremo a bere un whisky al Roxy bar. E se non trovate il Roxy, va bene qualsiasi bar sulla Via Emilia. C’è solo l’imbarazzo della scelta.

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