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Posts Tagged ‘curriculum’

Il pelo

Quando, con un anticipo di soli tre minuti sull’orario stabilito ma forse due perché il telefono non era del tutto affidabile,  si trovò a soli duecento metri dal luogo dell’appuntamento, Bottecchia ricordò di non essersi specchiato prima di partire da casa. Trattenne l’ansia che sentì divampare dalle viscere con una smorfia facciale e si guardò attorno. Gli venne in aiuto la vetrina di un negozio che faceva angolo tra la strada che stava percorrendo e una parallela. Si specchiò nel vetro e giudicò che tutto sommato poteva andare. La peluria sul volto era curata, il colletto della camicia non creava imbarazzo nell’incontro con il golf e le occhiaie, insomma, le occhiaie meritavano una sufficienza e niente più. Portò la mano destra all’altezza dell’occhio e massaggiò con indice e pollice sotto le orbite. Continuò l’esercizio più del dovuto e non perché credesse che ciò avrebbe portato ad un miglioramento della situazione, ma perché la sua attenzione, al di là della vetrina che stava utilizzando come specchio, era stata rapita da un libro impilato sopra altre venti copie dello stesso titolo. Un pieghevole rosso abbracciava il dorso e richiamava il lettore ad una sorta di civico dovere: il libro che ogni italiano dovrebbe leggere. Bottecchia tentò di guardare oltre, ma l’interno del locale gli era precluso dal riflesso del sole sulla vetrina. Per quanto strabuzzasse gli occhi l’unico oggetto che vedeva chiaramente era un pelo di barba intonso che sporgeva dalla restante radura del mento di un centimetro buono. Come era possibile che un tale fusto fosse passato inosservato al primo controllo, Bottecchia non sapeva spiegarselo. Tentò di afferrarlo tra indice e medio, ma non gli riuscì. Riprovò più e più volte, intervallando la battaglia depilatoria con inutili tentativi di scorgere qualcosa all’interno della libreria. Fu una provvidenziale campana a richiamarlo al dovere. Dong. Dong. Dong. Bottecchia colmò in un secondo la distanza che lo separava dal luogo dell’appuntamento, preferì senza dubbio alcuno le gambe all’ascensore, sorpassò con difetto di eleganza un’anziana signora all’imbocco delle scale, divorò i gradini come fossero strati di hamburger e frenò solamente davanti all’entrata dell’ufficio. Tossicchiò, stirò prima la camicia e quindi il maglione, fece una boccaccia nel tentativo di ravvivare i muscoli facciali e quindi suonò il campanello. La porta si aprì in automatico e questo gli procurò un certo sollievo, avrebbe potuto gestire l’entrata senza un faccia a faccia direttamente sulla porta. La stanza era piccola, le pareti verde pisello e il lampadario, mostruoso, pareva una trota nell’acquario delle tartarughe nane. Un tavolone scandinavo a U mostrava la curva della U a chi entrava in quell’appartamento adibito a ufficio di rappresentanza. Una segretaria di mezz’età con un taglio di capelli giovane e sbarazzino avvicinò la sedia alla curva della U spingendosi sulle rotelle. (altro…)

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Un giorno

Due? Facciamo tre, tre cucchiai di zucchero, crepi l’avarizia. Una tazza nera con un belll’incrocio tra pappagallo e piccione stilizzato in verde, un terribile miscuglio di caffè solubile con zucchero imputridito acquisito con il contratto dell’appartamento e un biscotto, forse due. Ma si, facciamo due, poi basta però e basta significa che fino a stasera non si mangia. A proposito di alimentazione, ci deve essere in questa isola un insetto mangiasoldi, non è possibile che pur non spendendo pressochè nulla io mi ritrovi sempre in bolletta. Anche ora dovrei aprire il portafoglio, ma non ne ho il coraggio. Allungo una mano e piego tra le dita il lembo della tasca con le banconote, trattengo il respiro e sbircio con sguardo obliquo di bovino il colore della carta all’interno: grigio male, rosso insomma, blu bene, giallo c’è un problema di daltonismo. Blu. bene, dai, vediamo il prossimo biglietto. No more, nessun’altro biglietto, non chiedere troppo. E va bè. Povera la mia pancia, dunque, che vedo calare inesorabilmente ogni mattina davanti allo specchio, non che avessi chissà che rotondità, intendiamoci, ma la linea convessa, complice anche la scarsa quantità di alcolici, sembra assottigliarsi ogni giorno di più. Ma tant’è, qui non mi conosce nessuno e nessuno mi dirà sei dimagrito o altre panzane, anzi, nessuno mi nota o dirige il suo sguardo verso questo pseudonordico che non si capisce se è italici o brtannico. No uno c’è e me ne accorgo sempre troppo tardi, quando la traiettoria dei miei passi incrocia, ormai inesorabilmente, lo sguardo felino del gatto obeso che staziona vita natural durante sotto casa mia e sembra non aver di meglio da fare che guardarmi sprezzante dall’alto della sua pinguedine, quasi a chiedermi se e cosa ho mangiato oggi. Evito gli o o o occhi di gatto e mi dirigo verso la zona turistica, dove contribuirò all’estinzione della razza umana tramite l’uso spregiudicato, inusitato e totalmente inutile di cellulosa da curriculum. E qui vi risparmio, tralascio il tutto e vi basti sapere che, almeno per me, tutto il mondo è paese, con tanto di bestemmie lanciate come post it per chi si spera a volte si ricordi che in fondo non avevo chiesto a nessuno di prendermi gli oneri e neppure i scarsissimi onori di una vita quaggiù. La mia mamma dice che sono un po’ sfortunato e io vorrei anche provare a giocarci un po’ su questo, come ieri ad esempio, quando mi sono ritrovato a tu per tu con la cassiera del Lidl e avrei voluto dirgli che quaranta euro di spesa per uno sfortunato sono una bella cifra, ma gli inglesi  dietro di me sbuffavano ansiosamente e dimenavano le mani tremolanti in attesa di fagocitare le ventiquattro lattine ancora confezionate che si portavano appresso. E così non se ne è fatto niente. Insomma, terminata la gimkana di frustrazioni, mi concedo una birra al pub vicino casa, ovviamente la più cheap, addirittura in lattina, in modo che l’alluminio conceda fragranza alla spremuta di luppolo gassificata. Fa pietà, lo so ancor prima di prenderla, ma un obolo il maltese lo vuole comunque e ne ha ben donde, visto che la storiella della sfortuna lui, uomo esperto di drink, la conosce e non la beve. Di fianco a me c’è un inglese sulla sessantina, un Mr. Smith come tanti, di quelli che vengono qui perché non devono sforzarsi a parlare una lingua barbara e possono inoltre bere fin dalle nove di mattina dolcemente spaparanzati al sole, mentre i raggi sconosciuti in riva al Tamigi tirano la pelle dei loro enormi ventri. In tutta sincerità e nessun rancore, mi fa un po’ schifo, Mr. Smith. Me ne vado, panzone baciabile della regina. How much is it? One fift…. Non ho mica capito. Non c’è molta differenza, ma trentacinque cent sono sempre trentacinque cent e Paperone ha iniziato con un solo cent. Con mano poco ferma allungo timidamente un quindici. FIFTY. Allora quando vuoi ti sai fare capire, eh? Rientro, ma prima voglio utilizzare l’ultimo curriculum che mi è rimasto. Lo appallottolo bene bene, lo stringo nel pugno e mi avvicino al pingue gatto sornione. Non si può sempre subire.

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