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Posts Tagged ‘Emilia’

Maggio, e non intendo il calciatore, se ne è andato. Un pezzo d’Italia a maggio se ne è andato, io pure a maggio non ci sono stato. Mese infausto, tra bombe di uomini il cui volto, chissà perchè, nessuno ha visto mai e bombe sotterranee che, chissà perchè, si potevano prevedere, si poteva fare diversamente, si poteva e si poteva anche tanto, ma non si è fatto, se non a posteriori davanti ad un cameraman. Mese, infine, di scommesse over/under, con tanta nostalgia del vecchio 1×2 e non voglio aggiungere altro perchè sarebbe banale e non sarebbe soprattutto corretto prendersela con giovani milionari che faticano a pagare le rate della villa e della ferrari allo stesso tempo. Della giustizia di tribunale ho poca fiducia, ma se ne esiste un’altra, di qualsiasi sorta, mi auguro che vi condanni a pagare, o meglio a non riuscire a pagare, ben altro tipo di rate. In ogni caso, il maledetto maggio ci ha ricordato che, ovunque noi siamo e qualunque cosa noi facciamo e diciamo, siamo lo stesso e per sempre coinvolti. Viviamo in una comunità, le nostre azioni si ripercuotono su noi stessi e su chi abbiamo vicino. Se pensiamo solamente a noi stessi, al nostro mero interesse, siamo finiti, onde ricordare fuori tempo massimo che fatti non fummo per contare solamente denti a francobolli, ma pure per aprire i nostri occhi ed estendere l’orizzonte al di là del nostro naso. At the end, addio maggio, nessuno ti rimpiangerà. Almeno lo spero.

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La natura ha un suo linguaggio e non ha bisogno di soggetti e complementi oggetti. Quando vuole, sa come ricordare ai comuni mortali chi comanda. La si può paragonare al severissimo Dio dell’antico testamento, quello che chiese ad Abramo il sacrificio del figlio nel suo nome. Se ne può parlare, insomma, e pure tanto. Ma lei comanda, taglia e cuce con l’imparzialità di chi sa colpire ieri nella poverissima Haiti e oggi nella ricca Emilia. Ma noi siamo emiliani, gente abituata a coltivare la terra e rispettare le stagioni. Ripartiremo, pure dall’ineluttabilità di un destino che non conosciamo e non conosceremo mai.

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“Correre allora, la macchina va dove vuole, svolta su e giù dalla via Emilia incontro alle colline e alle montagne oppure verso i fiumi e le bonifiche e i canneti. Poi tra Reggio e Parma lasciare andare il tiramento di testa e provare a indovinare il numero dei bar, compresi quelli all’interno delle discoteche o dei dancing all’aperto ora che è agosto e hanno alzato persino le verande per godersi meglio le zanzare e il puzzo della campagna grassa e concimata.” (P.V. Tondelli, Altri Libertini.)

Nelle righe successive l’autore dirà di aver perso il conto dopo il trentatreesimo bar. Considerati i venticinque chilometri che separano le due città e che, a differenza del nord oltrepò, qui gli spazi vuoti esistono ancora, non si può dire che manchino le tappe per un bicchierino. La via Emilia è una linea, una di quelle rette che gli scolari tracciano alle scuole medie unendo i punti, che in questo caso si chiamano Parma, Reggio, Modena e Bologna. Non è una semplice strada, è un’aorta dove non scorrono auto, telonati e caravan, ma storie e idee. La Via Emilia è qualcosa che non fa parte del territorio, la si può sfilare insieme alle sue città come le linguette della plastica delle sigarette. E’ li, a metà tra il Pò e le colline, da prima ancora della fondazione delle sue città. Ha subito la concorrenza dell’autostrada del sole, che ne ha copiato il percorso e rubato il traffico, ma non ne ha potuto scalfire il prestigio e si è dovuta accontentare del ruolo comprimario di vena safena. Abituati alla sua tagliente presenza, gli abitanti ne hanno interiorizzato la presenza, hanno sviluppato una coscienza simile a quella delle popolazioni fluviali, dividendosi tra emiliani del nord, quelli della pianura, ed emiliani del sud, dalle colline alle montagne. L’Emilia, la grande strada che quando l’attraversi ti volti a destra e sinistra infinite volte e non sai che non sono le macchine a richiedere da te tanta attenzione, ma la strada stessa, la Via. Qui si ferma la nebbia del nord, quell’opprimente nuvola padana dall’odore inconfondibile, inconsistente al tatto ma non ai capelli, quello strano fenomeno che sembra accerchiarti senza toccarti, lasciando sempre un metro tra te e lei. Chissà, magari è proprio la nebbia ad insinuarsi nelle narici di mucche e maiali e rendere latte e carne così buoni. Tra l’altro, cosa sarebbe l’Emilia senza i suoi insaccati, il suo Lambrusco di pianura o di collina, le sue specialità che non si possono mangiare o bere da soli. Tutto in Emilia spinge alla socialità: il cibo, gli spazi aperti, le miriadi di piazze delle sue città e paesi, le strade porticate che costringono i passanti ad incrociarsi, le centinaia di bar che spingono quegli stessi passanti appena incrociatisi a suggellare l’incontro con un bicchiere di quello buono.

Ecco, perfino il lavoro un tempo era organizzato in gruppo. Ancora oggi è possibile vedere nella campagna emiliana le corti, architetture chiuse su se stesse con un grande spazio centrale dove si svolgeva la vita quotidiana. Fu questo modo di lavorare a stretto contatto tra pari a rendere questa terre fertile alla diffusione del verbo socialista. Altrove, come a Carrara, il lavoro solitario spinse il cavatore verso l’anarchismo individualista, ma qui no, qui nacquero leghe di contadini, società di mutuo soccorso, cooperative e circoli operai. L’Emilia rossa, dei contadini ribelli, dei parmigiani antifascisti che sbeffeggiarono Italo Balbo per la sua mancata conquista della città nel 22 con la scritta “Balbo t’è pasè l’Atlantic mo miga la Perma”, l’Emilia dei partigiani reggiani e modenesi che avevano preso così sul serio la lotta della resistenza da non mollare le armi e cercare a modo loro il sol dell’avvenire. Ancora povera e contadina nei primi anni del dopoguerra, l’Emilia conobbe un incredibile sviluppo economico nei decenni successivi, accompagnato da una grande fertilità sul piano culturale. Sono anni da vetrina per l’Emilia, unico modello conosciuto e riconosciuto di socialismo e ricchezza, lavoro e capitalismo in salsa rossa. Auto, moto, formaggi, latte, le fabbriche sfornavano prodotti famosi nel mondo e le feste dell’Unità riunivano le famiglie attorno ad una balera.

Poi arrivarono gli americani, che non erano più i soldati bianconeri dello zio Sam, ma avevano una chitarra al posto del fucile e scrivevano canzoni che i figli della guerra emiliana recepirono come nessun altro in Italia. Fu così per il beat, il folk e qualche anno più tardi il punk. Ma il giocattolino iniziava ad incepparsi, l’Emilia iniziava ad ingrassare e a molti, così com’era, iniziava a non piacere più.

Nel momento del suo massimo consenso, dopo il record alle politiche del 1976, il Pci conosceva la contestazione “da sinistra”. Non era la prima volta che accadeva, anche il 1968 aveva creato grattacapi, ma qui c’era qualcosa di diverso, uno scontro generazionale tra un partito che non si rinnovava e giovani che chiedevano qualcosa di nuovo, tra desiderio di novità, frustrazione da consumismo e imitazione di movimenti d’oltremanica. Immaginate cosa avrà pensato l’intoccabile Luciano Lama, ex partigiano, comunista convinto nonchè mammasantissima della Cgil, quando fu contestato a Roma dagli universitari. Indiani metropolitani si chiamavano i movimenti del 77, quelli che cantavano dieci cento mille Big Horn, quelli che facevano della creatività il non plus ultra, quelli da cui nacquero i centri sociali, luoghi che con la filosofia emiliana centrano poco.

Emilia paranoica o rozzemilia, il risultato non cambia: il benessere negli anni ottanta ha preso una tinta fosca, l’Emilia sembra aver perso la sua identità. Dice Guccini in “Bologna”:

“Bologna e’ una ricca signora che fu contadina
benessere ville gioielli e salami in vetrina
che sa che l’odor di miseria da mandare giu’ e’ cosa seria
e vuole sentirsi sicura con quello
che ha addosso perche’ sa la paura.”

Ecco, forse questa è la miglior descrizione dell’Emilia ai giorni nostri: terra di aratri e bestiame, di fabbriche d’auto e di fame, terra arricchita troppo in fretta per poter assimilare il cambiamento.

Intanto la Via Emilia sempre li sta. Lei, che di cose ne ha viste tante vi dirà che comunque un posto come quello non lo trovate. Andate per il mondo e fate ciò che meglio vi aggrada, ma prima o poi l’odore di letame vi ricondurrà a casa. Forse, come disse un montanaro modenese, quella voglia di vivere che allora c’era oggi non c’è più, ma prima o poi ci troveremo a bere un whisky al Roxy bar. E se non trovate il Roxy, va bene qualsiasi bar sulla Via Emilia. C’è solo l’imbarazzo della scelta.

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