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Archive for the ‘Da qualche parte’ Category

1- Slontcha!
C’è una zona a Dublino in cui di giorno troverete famigliole anglosassoni, scandinave, celtiche e mediterranee ivi

Guinness for strength

Guinness for strength

portate dalla Lonely Planet impugnata dal maschio adulto. E’ gente di passaggio, Temple bar non è il loro habitat. Danno un’occhiata alle ragazzine urlanti, padri e figli ammiccano, madri e figlie invidiano. Poi proseguono altrove, verso un turismo di spiegazioni più sostenibili da affibbiare alla prole, verso una Dublino meno rozza e impresentabile.
Ma a parte l’imbarazzo di alcuni, al giorno Temple bar non è niente di che, una sorta di Ibiza del freddo, vento e pioggia. Quando calano le tenebre e ad ogni rintocco delle campane una percentuale sempre maggiore di persone rispettabili rientra nelle proprie stanze, questo quadrato di pub nel cuore di Dublino si trasforma mano a mano in un girone dell’inferno di gente putrida, imbevuta di birre nere e whisky gialli, incapace di programmare la giornata successiva e, alcuni, la vita stessa. O forse no, magari è una composita formazione in cerca di un momento di evasione e poi eccoli pronti a lasciare peti intrisi di luppolo e cibo di strada sull’aereo che li riporta alle quotidiane incombenze.

E l’orario si è fatto serio, quasi il sole si dice pronto ad accarezzare il famoso cielo d’Irlanda con i suoi raggi, quando all’angolo di uno di questi pub un personaggio poco e nulla celtico attende non si sa chi né cosa. Ha un berretto e una sciarpa turisticamente irlandesi, un occhio spento e l’altro sbilenco, una birra nella mano destra e una speranza, seppur fievole, di importunare ancora turiste con il suo approssimativo inglese. Quand’ecco che una zingarella anch’essa munita di bicchiere, ma contenente denaro e non liquido inebriante, gli si accosta garbatamente sulla sinistra. Il nostro ha lo sguardo fisso verso il nulla, la mente leggera e la mano avvezza al brindisi. Intravede solamente un bicchiere e non fa caso al contenuto, all’inequivocabile foulard sulla testa della Signora. Una sola cosa gli pare possibile in questo momento: che qualcuno gli richieda l’ennesimo brindisi della serata. “Slontcha!” pronuncia senza convinzione. E la zingarella ascolta il tintinnare delle monete nel suo bicchiere e si dice che no, nemmeno Temple bar è quella di una volta. Vecchia sporca Dublino. (altro…)

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Vi avevo già parlato della triste e macabra vicenda di Reneuzzi, borgo abbandonato dell’appennino piemontese. Oggi vi racconterò dell’altrettanto interessante storia di un piccolo borgo della Val Ceno, appennino parmense. Cà Scapini è un agglomerato di case abbandonate ormai da molti anni. Come ogni paese fantasma che si rispetti, anche Cà Scapini ha la sua leggenda. Anzi, ne ha più di una ed ognuna di esse riguarda il suo abbandono. Perché di Cà Scapini si sa poco e nulla. Non si sa, per esempio, quando fu abbandonato e, senza esagerare, si può affermare che non si sa nemmeno chi abitò quel borgo. E così c’è chi dice che il paese fu abbandonato a causa di una maledizione, il ritrovamento del cadavere di una pastorella orribilmente mutilato nel pozzo del paese. Altri dicono che la gente fuggì a causa di un rastrellamento nazista e, alquanto stranamente, non fece più ritorno. Le due teorie convergono su un punto: nella fuga, gli adulti si dimenticarono di alcuni bambini, lasciati alla loro mercé. Capita, allora, che da allora il viandante che si inoltra tra quelle case disabitate, sia richiamato dalle voci dei bambini abbandonati.

Ora, lasciamo riposare in pace bambini e pastorelle, mettiamo da parte le leggende e vediamo cosa rimane di questa storia. Come già detto, non si sa quando Cà Scapini fu abbandonato. Si può dire, quasi con certezza, che la partenza degli ultimi abitanti non sia anteriore agli anni cinquanta, ovvero in epoca relativamente recente. Eppure, in quella zona vi sono borghi anche più isolati di Cà Scapini, mi riferisco, ad esempio, al vicino Sidolo. Come mai, allora, una fuga così repentina e generalizzata? Non so. Forse, come in ogni leggenda popolare, un fondo di verità c’è, magari un evento luttuoso ha spinto all’abbandono una popolazione già numericamente risicata. Ma è poi importante saperlo? O meglio, ribaltando la domanda, quanto è bello non sapere come sia andata davvero? La montagna non vive un gran periodo, i paesi muoiono e le distanze, per assurdo, aumentano. Di molti borghi non è rimasto che qualche casa di pietra, una stufa, un calendario appeso di qualche decennio fa. E la leggenda. Non ci sono archivi, nella storia della civiltà montanara, c’è solo l’oralità e l’oralità si può modificare, in qualche caso anche inventare. Ecco, se qualcosa di surreale ci debba essere, altro non sia che questo: la montagna come un’entità viva e pensante che si prende gioco della nostra necessità di mettere nero su bianco, della nostra smania di risolvere tutto e sacrificare la magia al sacro fuoco della ragione. Salvo poi, ottenuta un’insipida soluzione, lamentarsi per la perdita del sale di ogni storia: il mistero. Cosa ci sarebbe di interessante nello scoprire che gli abitanti di Cà Scapini, stanchi di una vita grama e ormai impossibile, un giorno, magari in seguito ad un evento luttuoso, fecero le valigie e andarono dall’altra parte dell’oceano? Andate a Cà Scapini e ascoltate le voci dei bambini. Se vi è possibile, credete che ciò che state sentendo sia la loro voce. Credetelo intensamente. Altrimenti, se lo scetticismo non ve lo permette, sappiate che quella è la voce della montagna che vi dice: non te lo dirò mai chi era la gente di Cà Scapini. E allora, quando tornate nelle vostre case, nei vostri uffici, dite che voi, la voce dei bambini abbandonati di Cà Scapini, l’avete sentita per davvero. E’ l’unico modo per non dimenticare, ancora una volta, quei bambini.

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Non sono mai stato a Verdun e a quanto pare non v’è nulla di particolarmente interessante da vedere. Un memoriale, una cattedrale, un ossario risalente alla prima guerra mondiale. Meno di ventimila anime. Tutto qui. Se un giorno passerò dalla Francia nord orientale, regione Lorena, vi farò una tappa. Altrimenti non starò di certo a scomodare navigatori o ryanair. E allora perchè mi è venuta l’idea di parlare di questa cittadina al confine con la Germania? Beh, in verità la storia offre diversi spunti. Non è un caso se Verdun ospita il Centro mondiale della pace, delle libertà e dei diritti dell’uomo.

Verdun è un deja vu. A volte ritorna e fa sentire il suo peso geografico. C’è nella storia medievale, in quella moderna e pure in quella contemporanea. Del resto, la storia non fa mai nulla per caso. La posizione in cui sorge, quell’area tra la Mosa e il Reno, ha segnato equilibri (pochi) e conflitti (tanti) nell’europa negli ultimi duemila anni. Li vi era il limes dell’impero romano, quel confine che la romanitas non riuscì mai a superare e segnò, nei secoli seguenti, il punto di divisione tra il mondo latino e quello germanico.

Nel 843, con il trattato di Verdun, i discendenti di Carlo Magno si spartiscono il Sacro Romano impero. E’ la definitiva separazione dell’impero carolingio, la Francia si separa dalla Germania, la frontiera renana non è più solamente culturale, ma pure politica. Durante il medioevo Verdun subisce l’egemonia germanica. Si specializza come mercato degli schiavi e centro di produzione di eunuchi. Una storia che a noi contemporanei può far storcere la bocca, ma il peggio deve ancora venire. Nella seconda metà dell’ottocento si combatte la guerra franco-prussiana, che sancirà l’egemonia tedesca sull’europa. La città sarà teatro di numerose operazioni belliche.

Ma è nel secolo passato che Verdun diviene tristemente una città simbolo. Nel 1916, per undici lunghi mesi, la città è teatro della cosiddetta battaglia di Verdun. Vi perdono la vita un milione di soldati francesi, inglesi e tedeschi. Una media di tremila morti al giorno. E’ la più grande carneficina della grande guerra. Un intera generazione al macero. La storia non è mai magistra di vita, purtroppo. Pochi decenni e tutto si ripete. Sempre loro i protagonisti, Francia e Germania. Ma stavolta, niente Verdun. La linea Maginot, la linea di fortificazione ideata dai francesi per contrastare possibili aggressioni tedesche, viene aggirata dalla Wermacht. Verdun, incredibilmente, rimane fuori dalla storia.

Non per molto, però. Nel 1984 il presidente francese Mitterand e il cancelliere tedesco Kohl scelgono Verdun per un incontro conciliatore. Sono passati molti anni dagli orrori delle guerre, ma la violenza, si sa, è dura da estirpare. Un francese e un tedesco, ma anche un socialista e un conservatore. Un gesto dal grande potere simbolico. A Verdun, ovviamente.

Tante volte la storia degli uomini ha fatto tappa a Verdun. E’ una storia di divisioni, di lacerazioni profonde e sanguinolente. Altissimo è il prezzo pagato per arrivare alla distensione. Per secoli il sangue e l’odio sono corsi in riva alla Mosa. E Verdun stava li, altera, maligna, severa, sicura che prima o poi si sarebbe dovuti passare di li. E’ una storia finita? Penso di si. Oggi le guerre sono economiche e Verdun ha tutt’al più un mercato agricolo. Ma chissà, la storia è ciclica. E alla storia, Verdun, piace davvero tanto.

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Reneuzzi

Reneuzzi è un paese abbandonato nell’appennino piemontese, provincia di Alessandria. Situato ad oltre mille metri sul livello del mare, Reneuzzi è probabilmente uno dei paesi più isolati dell’intera penisola. Per intenderci, non è collegato ad altri paesi tramite strade carrabili e l’unico modo per accedervi è un sentiero che da Vegni, situato ad un’ora di auto da Novi Ligure, porta al paese di Reneuzzi dopo due ore di cammino. Senza acqua corrente né elettricità, è inutile dire che il paese non è più abitato, dal 1961 qui non vi è più anima viva. Ora, questa storia è comune ad altri borghi montani e non ci sarebbe altro da analizzare se non il malinconico e inevitabile abbandono della montagna. Ma qui c’è qualcosa di diverso. Il paese non muore da solo, agonizzando lentamente tra partenze e vecchiaie. No, questa volta si porta con sé due vite e una storia d’amore e follia.

L’escursionista che giunge a Reneuzzi è presto incuriosito dal piccolissimo cimitero della frazione. In un recinto di cinque metri per tre, si trovano una dozzina di tombe ormai illeggibili, la cui datazione va dall’inizio del XX secolo al 1954. Poi vi è una tomba meglio conservata di altre. Ha una bizzarra forma a casetta e appare sproporzionata rispetto alle dimensioni del cimitero. In basso c’è una lapide con una scritta: Bellomo Davide, 12-5-1930  22-9-1961, papà e mamma dolenti. E’ l’ultimo abitante, morto a 31 anni.

Siamo nel 1961, l’Italia corre verso il boom economico, le città brulicano di vita e sempre nuovi quartieri spuntano là dove prima c’era la campagna. Per un’Italia che cresce, un’altra arranca. La montagna si spopola e invecchia: gli anziani e i pochissimi giovani rimasti salutano ogni giorno qualcuno che se ne va, le porte si chiudono e nella maggior parte dei casi non verranno mai riaperte. Sono anni spietati per i paesi isolati, le curve demografiche precipitano. Reneuzzi paga una situazione anche peggiore di altri centri. Niente acqua, niente elettricità, niente terra e pochi pascoli. Mentre Milano esplode di luce, duecento chilometri più a sud c’è ancora chi vive senza lampadina e rubinetto. Estremi di un paese in fase di modernizzazione incompleta. A Reneuzzi se ne sono andati quasi tutti già nel primo dopoguerra. In quell’estate del 1961 nel paese non è rimasto che Davide Bellomo. Davide è fidanzato con Maria Franco, ventenne di Ferrazza, paesino non lontano da Reneuzzi e in uguali condizioni di isolamento e conseguente spopolamento (oggi è anch’esso disabitato da molti anni). E’ una storia tormentata, i due sono cugini e la famiglia di lei, una delle ultime rimaste a Ferrazza, non vede di buon occhio la coppia. Un giorno di settembre Maria comunica a Davide che se ne andrà con la famiglia in un paese del genovese, in cerca di lavoro e di una vita migliore. Davide non ci sta, ha visto partire tutti gli amici di infanzia, morire gli anziani, si è ritrovato solo, senza sapere dove andare in un mondo che non conosce all’infuori della sua montagna. Un giorno, impazzito per la paura di perdere anche Maria, gli spara e la uccide. Poi scappa nei boschi. Lo ritroveranno pochi giorni dopo, morto suicida. Con il suo suicidio si conclude la storia di Reneussi. La famiglia di Maria se ne andrà da Ferrazza e anche quest’ultimo paese saluterà la civiltà.

E’ una storia di isolamento sociale, di disagio psichico e imbruttimento dovuto all’abbandono e, forse, all’ignoranza. Sebbene la trama fosse lontanissima dalla vicenda di Reneuzzi, ho ripensato al romanzo “La storia” della Morante, dove Ida Ramundo e la sua famiglia subiscono la “storia” che si sta compiendo, senza poter difendersi in alcun modo. E’ la storia di Davide e Maria, nati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Se fossero nati cento anni prima, la loro vita non sarebbe stata meno grama, ma avrebbero comunque vissuto una realtà diversa. Invece nacquero alla fine di un’era e  furono travolti dal cambiamento. Altrove si iniziava a vivere bene, a circondarsi di agi e sorridere alla vita, sulle montagne della val Borbera si subiva invece lo stato depressivo causato dalla fine di una civiltà. Chi visse quegli anni in quei posti che la storia stava tagliando come una spesa inutile, dovette abbandonare quella vita o rimanerne imprigionato. Non penso che quel mondo fosse da salvare, l’uomo tende al miglioramento della propria condizione e l’imbruttimento di una vita impossibile arreca più lutti che gioie. Ciò che ritengo assurdo è dimenticare quel mondo. Dimenticare storie è impoverire la nostra vita, ma non solo. Molti di noi discendono probabilmente da persone che vissero in luoghi come Reneuzzi, uomini e donne che se ne andarono in cerca di una vita migliore. Dimenticare quella storia è dimenticare la loro storia. Quando un paese è lasciato a morire trascina con sé la storia degli uomini e delle donne che vi vissero. Le case crollano, ma non è il peso della storia a sfondare i tetti. E’ la dimenticanza.

Alcuni link con foto di Reneuzzi e notizie sulla tragica vicenda:

http://paesifantasma.wordpress.com/category/paese-fantasma/paesi-fantasma-piemonte/

http://nazioneoscura.wordpress.com/2012/11/05/pesi-fantasma-e-villaggi-abbandonati-parte-vii-reneuzzi/

http://blog.libero.it/montagna/view.php?id=montagna&mm=1006

La foto è tratta da http://digilander.libero.it/giorgiocroce/

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Il viandante che giungerà per la prima volta a Malta, rimarrà subito colpito dal caos che regna sovrano in questo crocevia tra Sicilia e Africa. Tutto qui è ammassato: le auto, le case, le barche, i pub, i ristoranti e, ovviamente, le persone. Spiagge non ve n’è molte e nei mesi di punta dovrete lottare per il vostro fazzoletto di sabbia con gente di tutto il mondo, sempre che non vi imbattiate nello scarso senso ecologico della famiglia maltese e allora vi ritroverete sommersi di packaging, monnezza varia e magari un bel barbecue fumante a due metri. Piccola e affollata, l’isola dei cavalieri non è certo il posto adatto a chi cerca tranquillità. Per gli amanti della solitudine ci sarebbe il piccolo boschetto di Buskett Garden, unico luogo alberato e fresco dell’isola, ma pure qui la competizione non manca.

Tuttavia c’è un posto nella parte ovest dell’isola (quella che guarda all’Africa, per intenderci), dove difficilmente dovrete maledire giovani truzzi occidentali o ricchi cafoni dell’est. Ecco, magari dovrete salutare un pastore di capre che probabilmente non vi ricambierà, così come dovrete osservare dove mettete i piedi. Gli animali, almeno loro, sono giustificati.

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Il-waqfa li jmiss Dingli cliffs, Had-Dingli. Next stop is Dingli cliffs, Had-Dingli. Quando penso a Dingli, alle sue scogliere ripide, ai terrazzi rubati dall’uomo per coltivare uno dei pochi spazi verdi dell’isola, alla chiesetta che veglia su quel mare un tempo portatore di minacce saracene, a quell’isola rocciosa al largo simile ad un fungo, quanto penso a tutto questo il primo ricordo è la brezza. Quella brezza sapeva di mare, di Africa, di tempi lontani. La vedevi accarezzare il mare e incresparlo e poi spingersi su verso te arrampicandosi per la roccia. Mi sentivo accarezzare la barba e respiravo a pieni polmoni, come mi consigliava mia madre da bambino.

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Il rumore delle onde, ovattato dall’altitudine, il fruscio del vento contro gli arbusti, qualche belato lontano. E poi il mare, il verde e la roccia. Tutto e niente. A pochi chilometri di distanza l’isola brulicava di anime festanti e di altre anime che sudavano per far divertire le prime.

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Bringing it all back home

Sono tornato, tornato da Malta e tornato sul mio blog. Devo essere sincero, non mi è mancato più di tanto, il mio blog, intendo. C’è un tempo per vivere ed un tempo per scrivere, ed io per qualche mese mi sono dedicato al primo. Del resto, ogni tanto bisogna anche studiare. Ho le dita anchilosate, i pensieri arrugginiti e le parole compaiono confuse sul laptop, un pò come se fosse la prima volta che scrivo. Potrei raccontare un sacco di cose su Malta, in cinque mesi in un paese sconosciuto di cose ne accadono e qualcosetta qua e là in post ormai lontani ve l’ho pure accennata, ma non dirò molto di più e non per un vero motivo ma perché sono fatto così, perché sono partito senza dire nulla o quasi a nessuno e così sono tornato. Non racconterò perciò di fatti accaduti in prima persona, magari ve li propinerò strampalati e gonfiati sotto forma di racconto, se li vorrete leggere. Piuttosto, vi voglio solamente accennare a qualcosa che ho portato a casa, la valigia che nessun perfido check-in Ryanair può infilarvi in un aggeggio metallico dalle dimensioni prestabilite e, nel caso, impedirvi di portarla a casa. L’odore di Malta. L’odore di un’isola è inconfondibile, quello di un’isola posizionata tra l’Europa e l’Africa lo è ancora di più. Malta sa di vento, di mare, di sporco e di piscio di ubriachi, di erba bruciata e di arbusti stecchiti, di pesci vivi o fritti che siano, di cucine, puttane e pure di sole, perchè pure quello là ha il suo odore. Non pensiate che mantenga tutti questi odori nelle mie narici, l’olfatto non è così subdolo e vi ripresenta i propri prodotti al momento giusto, quando sa di far piacere. E’ un database di emozioni che funziona a random. E dunque, domani o forse tra due mesi o tre anni, quelle fragranze mi torneranno alla mente e allora ricorderò la mia casa di Qawra, il Buongiorno, il Fuego, il pistolotto, le persone che ho conosciuto e quella (la più importante) che ha condiviso con me il bello ed il brutto di quei strange days. Se vi capita di andare a Malta salutatemela. E annusate.

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Vi avverto, onde evitare che perdiate il vostro prezioso tempo, voi che probabilmente avete una giornata più intensa di quella vuota e inutile del sottoscritto: se il vostro coltissimo repertorio musicale vi ha portato tra queste righe attirati dall’omonima canzone del compianto Gaber, apprezziate la fine strategia di marketing, ma sappiate che non si parlerà di Marlboro di destra e sfortuna di sinistra. Se invece vi state pregustando una disquisizione sulla fine della seconda repubblica e l’avanzata dell’antipolitica, con anessa analisi parmigiana, vi consiglio blog più afferrati in materia, anzi, potrei anche consigliarvene qualcuno. Niente di tutto ciò, la mia intenzione è solamente quella di occupare una mattinata della mia perennemente disoccupata esistenza disquisendo sulle differenze tra chi in auto tiene la sinistra e chi la destra. Non è una differenza da poco, pensate solamente alle fabbriche di auto: il posto del guidatore è differente a seconda che la bolla di spedizione reciti EU o UK e affini. Se io lavorassi alla Peugeot, per esempio, probabilmente mi capiterebbe di inviare a Kingston-upon-Hull uno stock di 306 con volante a sinistra e ciò mi costerebbe probabilmente il posto, ma, fortuna nella sfortuna, la Peugeot non è nemmeno a conoscenza della mia esistenza e, come chiunque abbia una attività produttiva, ben si guarda dall’accorgersene. Ma il bello viene quando metterete in uno dei paesi dove la guida è a sinistra, magari ivi trasferiti pensando che all’estero qualcuno si muova a compassione per il vostro misero caso, ma questo è un discorso a se stante e sicuramente voi avrete più fortuna del sottoscritto. Beh,   in ogni caso tutto cambia e ve ne accorgerete presto. Primo step: la direzione degli autobus. Tranquilli e beati, orgogliosi di aver studiato a memoria la mappa dei bus con tanto di orari e direzioni del 31, vi appostate, ben visibili, accanto alla fermata sul lato destro della strada, attendete pazientemente con lo sguardo rivolto a sinistra per scorgere l’arrivo del 31 e, mentre iniziate a elaborare la possibilità di un vostro errore, lo spostamento d’aria provocato da un grosso mezzo proveniente da dietro, destra per intenderci, vi fa sobbalzare impauriti, il tutto mentre il vostro agognato 31 è si comparso all’orizzonte, ma quasi per burla si è fermato dalla parte opposta della strada e tanti saluti. L’esperienza più bella è, ovviamente, attraversare la strada. Difficilmente lo farete sbadatamente, anzi, prima osserverete a destra, poi a sinistra, poi un passo avanti, poi ancora un occhio a destra e due a sinistra, poi una corsetta fino a metà strada, poi ancora destra, sinistra e destra ancora, il tutto tenendo il fiato sospeso perché, comunque, di preciso non sapete da dove arrivino gli investitori e volante di qua o volante di la il cofano sempre cosa dura è. Ieri il mio livello di autostima ha superato il livello di guardia negativo, così sono andato a fare una corsa per le vie maltesi. A parte il problema di ingombro sul marciapiede, provocato da pensionati inglesi ormai prossimi all’immobilità e da una popolazione ai vertici delle classifiche europee di chili pro capite, ho capito ben presto di aver sbagliato direzione. Allora, dopo ripetuti sorry a destra e manca, mi sono spostato sulla giusta direzione. Poi, stanco, ho rallentato fino a camminare. Un gatto, uno dei tanti, ha cercato di sorpassarmi ed io, gentilmente, gli ho lasciato spazio a sinistra, mentre lui, come solito da queste parti, aveva già messo la freccia a destra. L’ho così stretto a tenaglia contro il muretto, ma, essendo un gatto, è sgattaiolato via alzando la coda in segno di improperio. Sorry, Mr. Cat, i’m italian. A poor italian 29-year-old unemployed.

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Un giorno

Due? Facciamo tre, tre cucchiai di zucchero, crepi l’avarizia. Una tazza nera con un belll’incrocio tra pappagallo e piccione stilizzato in verde, un terribile miscuglio di caffè solubile con zucchero imputridito acquisito con il contratto dell’appartamento e un biscotto, forse due. Ma si, facciamo due, poi basta però e basta significa che fino a stasera non si mangia. A proposito di alimentazione, ci deve essere in questa isola un insetto mangiasoldi, non è possibile che pur non spendendo pressochè nulla io mi ritrovi sempre in bolletta. Anche ora dovrei aprire il portafoglio, ma non ne ho il coraggio. Allungo una mano e piego tra le dita il lembo della tasca con le banconote, trattengo il respiro e sbircio con sguardo obliquo di bovino il colore della carta all’interno: grigio male, rosso insomma, blu bene, giallo c’è un problema di daltonismo. Blu. bene, dai, vediamo il prossimo biglietto. No more, nessun’altro biglietto, non chiedere troppo. E va bè. Povera la mia pancia, dunque, che vedo calare inesorabilmente ogni mattina davanti allo specchio, non che avessi chissà che rotondità, intendiamoci, ma la linea convessa, complice anche la scarsa quantità di alcolici, sembra assottigliarsi ogni giorno di più. Ma tant’è, qui non mi conosce nessuno e nessuno mi dirà sei dimagrito o altre panzane, anzi, nessuno mi nota o dirige il suo sguardo verso questo pseudonordico che non si capisce se è italici o brtannico. No uno c’è e me ne accorgo sempre troppo tardi, quando la traiettoria dei miei passi incrocia, ormai inesorabilmente, lo sguardo felino del gatto obeso che staziona vita natural durante sotto casa mia e sembra non aver di meglio da fare che guardarmi sprezzante dall’alto della sua pinguedine, quasi a chiedermi se e cosa ho mangiato oggi. Evito gli o o o occhi di gatto e mi dirigo verso la zona turistica, dove contribuirò all’estinzione della razza umana tramite l’uso spregiudicato, inusitato e totalmente inutile di cellulosa da curriculum. E qui vi risparmio, tralascio il tutto e vi basti sapere che, almeno per me, tutto il mondo è paese, con tanto di bestemmie lanciate come post it per chi si spera a volte si ricordi che in fondo non avevo chiesto a nessuno di prendermi gli oneri e neppure i scarsissimi onori di una vita quaggiù. La mia mamma dice che sono un po’ sfortunato e io vorrei anche provare a giocarci un po’ su questo, come ieri ad esempio, quando mi sono ritrovato a tu per tu con la cassiera del Lidl e avrei voluto dirgli che quaranta euro di spesa per uno sfortunato sono una bella cifra, ma gli inglesi  dietro di me sbuffavano ansiosamente e dimenavano le mani tremolanti in attesa di fagocitare le ventiquattro lattine ancora confezionate che si portavano appresso. E così non se ne è fatto niente. Insomma, terminata la gimkana di frustrazioni, mi concedo una birra al pub vicino casa, ovviamente la più cheap, addirittura in lattina, in modo che l’alluminio conceda fragranza alla spremuta di luppolo gassificata. Fa pietà, lo so ancor prima di prenderla, ma un obolo il maltese lo vuole comunque e ne ha ben donde, visto che la storiella della sfortuna lui, uomo esperto di drink, la conosce e non la beve. Di fianco a me c’è un inglese sulla sessantina, un Mr. Smith come tanti, di quelli che vengono qui perché non devono sforzarsi a parlare una lingua barbara e possono inoltre bere fin dalle nove di mattina dolcemente spaparanzati al sole, mentre i raggi sconosciuti in riva al Tamigi tirano la pelle dei loro enormi ventri. In tutta sincerità e nessun rancore, mi fa un po’ schifo, Mr. Smith. Me ne vado, panzone baciabile della regina. How much is it? One fift…. Non ho mica capito. Non c’è molta differenza, ma trentacinque cent sono sempre trentacinque cent e Paperone ha iniziato con un solo cent. Con mano poco ferma allungo timidamente un quindici. FIFTY. Allora quando vuoi ti sai fare capire, eh? Rientro, ma prima voglio utilizzare l’ultimo curriculum che mi è rimasto. Lo appallottolo bene bene, lo stringo nel pugno e mi avvicino al pingue gatto sornione. Non si può sempre subire.

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Essere figlio di un ferroviere significa, tra le altre cose e alcune di non poco conto come non pagare il biglietto fino alla veneranda età di venticinque sigh anni, significa, dicevo, essere svezzato allo stridore dei freni e a quell’odore inconfondibile di treni e rotaie che penetra nelle narici non appena l’occhio scorge un cartello blu con scritta bianca o una croce di Sant’Andrea con luce rossa incorporata. Lo riconosco ovunque quell’odore, i miei sensi ne sono attratti, gli organi preposti all’olfatto si tendono come corna di lumache, la mia mente scatena flash di oramai ancora sigh arcaiche vacanze con genitori, berretti con lo stemma FS, treni fischianti nelle notti insonni della prima adolescenza, perchè ogni ferroviere che si rispetti deve avere la sua casa vicino   alla stazione. L’ho riconosciuto, si l’ho riconosciuto pure qui, in quest’isola di macchine roboanti e autobus spericolati, barche silenziose e scafi inquietanti, Malta, caotico avamposto britannico tra l’Italia e l’Africa, che poi, in fondo, ormai non c’è nemmeno tanta differenza tra le due sponde e forse è meglio così. Malta, dove gli inglesi hanno imposto lingua e guida snob all’opposto del mondo intero, Malta, che dai padri della rivoluzione industriale non ha però preso il simbolo per eccellenza di quel cambiamento apocalittico avvenuto un paio di secoli or sono tra le brume di Sheffield e Northampton: la ferrovia. Niente treni, niente stazioni, niente inconfondibile odore di sferragliamento. Ma io, il mio atavico odore, l’ho portato con me, è qui anche ora, a due metri dalla postazione dove scrivo, è la mia valigia seminuova, comprata per l’occasione e mai utilizzata su alcun treno. Lo so, nemmeno io riuscivo a svelare l’arcano, ma poi l’illuminazione mi è arrivata guardando il mare all’orizzonte, con una Cisk in mano e tanta confusione (di altra natura) in testa. Ecco, me ne stavo proprio li sullo scoglio e mi vedo passare lontano un mercantile, uno di quei cargo strapieni di container, navi che sbucando dal Canale di Suez risalgono per queste rotte e raggiungono i grandi porti del nord con le loro merci Made in China. E proprio dalle invivibili città-industrie cinesi proviene la mia valigia! Ecco, pensai allora, dove ha preso quell’odore di ferraglia! I container! Pensando di aver scoperto chissà che cosa, ho finito in fretta la lattina e mi sono diretto a casa, dove, senza vergogna alcuna, ho abbracciato la mia valigia come fosse il cuscino di una cuccetta di un vagone letto. Bag, sweet bag.

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Venezia

Bocca dorata: “Corto cosa fai qui fuori?” Corto Maltese: “Sto pensando che dovrei decidermi a partire, Venezia mi impigrisce.” B.: “Venezia è fatta per questo, vuoi un bicchierino di rosolio?” C.: “Rosolio? Credevo non si vendesse più. Ma dimmi, Bocca dorata, da quando vivi a Venezia.” C.: “Venni nel 1300 con il cabalista Manoello Giudeo. Oh, si, eravamo amici di Dante, ma basta aprire quella porta sul fondo per andartene o ritornare nel tempo, come una favola.” C.: “Sarebbe bello vivere una favola.” B.: “Ma tu vivi continuamente nelle favole, non te ne accorgi più? Quando un adulto entra nel mondo delle fiabe, non riesce più ad uscirne, non lo sapevi?” C.: “Forse siamo in ritardo, oggi è il 34 dicembre e il primo dell’anno non è ancora arrivato.” B.: “Ah si, si, ma anche Natale è arrivato il 27. Qui a Venezia gli anni sono sempre un pò più lunghi.” C.: “Che altro fate voi? Prima fate dei ladri e poi li punite? Non sono mai riuscito a leggere questo libro.” B.: “Lascia stare, Corto, non ne avresti il tempo, il tuo oroscopo dice che farai un lungo viaggio avventuroso. Oh si, si. Cosa fai, dormi?”

Ci sono molti modi di descrivere una città: se ne può elogiare l’ospitalità della gente, le specialità gastronomiche, le bellezze monumentali. La si può celebrare o insultare, amare o distruggere, si può essere obiettivi o di parte. Oppure la si può descrivere così, come Hugo Pratt attraverso i personaggi di Corto e Bocca dorata nel sovrastante brano. Cos’è Venezia, nel nostro immaginario, se non un sogno, la follia umana di costruire una città in una palude, dove le strade sono fatte d’acqua e l’acqua, quando è tanta, entra pure nelle case. A Venezia il tempo si è fermato, la Serenissima è un museo a cielo aperto che ospita le genti di tutto il mondo, lei che fu la porta e la barriera verso quell’oriente pericoloso e misterioso. Venezia è, come disse Guccini, un imbroglio, una favola  a cui si inizia a credere già nelle prime calle e si finisce per farne totalmente parte dopo qualche ponte, infilando il naso in qualche corte dal nome attraente, perdendosi tra un sestiere e l’altro e ritrovandosi in un territorio dove si parla yiddish e si mangia pane azzimo. Ma poi tutto finisce e quando la si vede stagliarsi sempre più piccola e lontana nella notte della laguna si pensa che forse no, forse tutto ciò era una trovata pubblicitaria, uno scherzo del marketing made in Italy. Cos’è Venezia, per noi che ne siamo innamorati? Scriveva Peggy Guggenheim: “Si è sempre dato per scontato che Venezia è la città ideale per una luna di miele, ma è un grave errore. Vivere a Venezia, o semplicemente visitarla, significa innamorarsene e nel cuore non resta più posto per altro.” Favola e sentimento, insomma.

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