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Archive for the ‘Bottecchia’ Category

“Che poi io un’idea l’avrei.” Poulidor sporse il corpo verso il centro del tavolino facendo leva sui gomiti “Te lo ricordi mio cugino Mottet? Quello che un paio d’anni fa portasti a casa alla festa di S. Michele perché era ubriaco come un asino?”
“Si” rispose Bottecchia “e ricordo pure che mi ha vomitato sulla portiera e il vomito si è infilato nella fessura del finestrino e ancora adesso ogni volta che alzo il finestrino strane strisce si compongono sul vetro e mi ricordano tuo cugino Mottet. Buono quello” aggiunse. Ma il nostro Bottecchia era tutt’altro che interessato alle parole dell’amico e non faceva nulla per dimostrare il contrario. Seduto allo stesso tavolino dello stesso bar, distanziato di pochi centimetri, il Bottecchia rispondeva a Poulidor per il solo gusto di contrariarlo, come si fa nei giorni di luna storta, che nel caso di Bottecchia sono uno si l’altro pure, o quando non si ritiene l’interlocutore in grado di portare a termine un discorso compiuto, che nel caso di Poulidor era una certezza. E così, mentre l’amico lo incalzava, Bottecchia guardava il barista riempire la ciotola delle arachidi sul bancone ad uso e consumo degli avventori e non è arduo indovinare che se gli occhi erano inequivocabilmente all’uomo, gli impulsi visivi si dovevano perdere in qualche ganglio della capoccia sua. Aveva il suo da fare Poulidor ad attirarne l’attenzione. Diciamo pure che i subdoli accorgimenti suggeriti dal suo istinto, cose del tipo battere la mano sul tavolo prima di prendere la parola o pungolare il costato con il gomito, cadevano dietro all’ostinazione di chi non voleva mostrare interesse. (altro…)

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RIASSUNTO: Bottecchia fa servizio sul pulmino dei disabili guidato da Mario. Oltre a loro sul pulmino ci sono Fangio e Campari. La strada è dissestata e il pulmino buca in prossimità del quartiere San Damiano, il peggiore della città.

Condomini imponenti sfidano il cielo come torri di Babele, per lo più grigi come il fumo prodotto dalla combustione di erbaggi, talvolta arancioni, quasi a tentare di conciliare l’animo dello spettatore con l’infelice paesaggio, oppure, ancora, rosa e fucsia, colori di per sé vivi e quindi scelti in una tonalità a dir poco sbiadita. Bottecchia osserva il condominio che si staglia a pochi metri dal pulmino e ne trae un senso di ineluttabile sconforto. Un mostro di cemento armato a forma di C rovesciata gli mostra la parte concava. Come le mura di Troia, pensa Bottecchia. Con la differenza, continua il nostro, che le porte Scee non avevano oblò del diametro di un metro e più che le percorrevano dall’alto al basso a intervalli regolari. Il mastodonte è rialzato rispetto alla strada in modo da permettere alle macchine di penetrarvi nelle viscere attraverso minuscole e oscure fessure nel cemento. Ma quale autista può avere l’ardire di spingersi nelle viscere di un mostro? Bottecchia scende dal pulmino e si guarda attorno. Altri immensi alveari, altro grigiore. Un lungo filare di platani separa strada e case sul lato opposto della strada. A vederli così ordinati, in fila a intervalli regolari, quegli alberi sembrano soldatini. Ma non hanno certo l’aspetto degli yankee sorridenti che distribuiscono gomme da masticare a scugnizzi pidocchiosi, piuttosto sembrerebbero un plotoncino sovietico in una triste parata in onore del dittatore di turno.

Mario si è allontanato, perso in parole oscene gridate in un dialetto comprensibile solamente a se stesso e alla moglie che di quegli improperi è fatta bersaglio. Bottecchia compie il giro attorno al pulmino, termina di osservare l’osservabile e quindi si affaccia all’interno dal portellone laterale. Fangio è agitato, alza lo sguardo oltre il finestrino, accellera il respiro, quindi abbassa di scatto e inizia a tremare. Ripete una, due, tre volte e ogni volta accentua il movimento. “Fangio, che hai?” chiede Bottecchia. Ma Fangio non risponde, non volge nemmeno lo sguardo verso Bottecchia, alza la testa e guarda fuori dal finestrino alla sua sinistra per poi distogliere nuovamente lo sguardo. Le labbra tremano, il corpo stesso è percorso da un fremito. Bottecchia sale sul pulmino e si accovaccia accanto a Fangio. “Ehi, Fangio, che hai?” e così dicendo gli afferra le mani che sembrano aver maneggiato ghiaccio fino a pochi secondi prima. “Fangio, Fangio” e lo scuote dolcemente. “Fangio, tranquillo, ci sono io, c’è Mario” e osserva davanti a sé se Mario c’è veramente, ma è sempre più lontano. “C’è pure Campari. Eh Fangio, non c’è niente di cui avere paura, guarda, c’è pure Campari” Bottecchia con un sorriso indica il terzo coinquilino del pulmino, ma quando alza lo sguardo e lo vede subito contrae le labbra verso il basso e abbassa il braccio. Campari lo fissa con due occhi fuori dalle orbite e il labbro inferiore corrucciato. Bottecchia sa benissimo cosa sta per scatenarsi e ancor prima che la cantilena cominci implora con tono rassegnato “No, Campari, ti prego, no, non è il momento, non ti ci mettere pure tu, ti prego” e mentre la lagna di Campari, bassa di volume ma alta di tono, si spande nel pulmino, Bottecchia, inginocchiato di fianco al tremolante Fangio, abbassa la testa, la scuote e si gratta la fronte. Poi si alza di scatto e quasi colpisce il tetto del pulmino con la testa, allarga le braccia e fa segno di calma con le mani “Ok, ok” dice “Mo vi do la pilloletta e buonanotte a tutti.”

“Ehi bello, che gli dai a questi? La pasticchetta?” Bottecchia alza di scatto la testa dal borsone dei medicinali dove sta frugando e osserva l’interlocutore. Questi si accorge della sorpresa sul volto dell’altro “Scusa, ti ho spaventato eh? Non volevo mica eh? Scusami” Poi porge la mano e Bottecchia, la cui espressione non è per niente cambiata, con gli occhi fa la spola tra la mano dell’uomo e il volto. Emaciato, pallido sulle tempie e rosso altrove, occhi scavati, sbarrati, labbra inesistenti, come inesistente è almeno un terzo dell’arcata dentale, nessuna calvizie, ma capelli diradati un po’ ovunque. Disordine generale, odore caratteristico, vestiti scelti, se di scelta si può parlare, in modo casuale per coprire tante ossa e poca carne. “Sono Max” dice l’uomo ribadendo il tentativo di stringere la mano all’altro. Forse la situazione di stasi, con Bottecchia seduto al solito posto e con le mani dentro il borsone dei medicinali mentre immobile osserva uno sconosciuto affacciatosi al portellone del pulmino porgergli la mano, sarebbe continuata per chissà quanto se Fangio non avesse gridato con voce tremolante “Chi c’è? Chi è Bottecchia? Chi è?” Le parole di Fangio hanno l’effetto di sbloccare Bottecchia. “Ascolta” dice all’uomo “Ho i bambini agitati e vedi un po’ tu” quindi fa un generico cenno con la testa verso i bambini e aggiunge “Ora mi devi scusare, ma non è proprio il momento” Ma mentre abbassa lo sguardo verso la borsa e borbotta qualcosa di incomprensibile, Max, che pare non avere capito la perentorietà della frase, riattacca “Cosa gli dai a questi ragazzi? Un tranquillante? Roba potente?” Bottecchia continua a rovistare nella busta, ma con il pensiero è altrove. Le mani ripetono ossessivamente gli stessi movimenti e la scatola delle pastiglie potrebbe anche capitargli tra le mani, ma lui non la vedrebbe, perché gli occhi mirano alla borsa, ma vedono Max, i palazzi grigi, Mario lontano come un miraggio e la ruota bucata. Max non riceve risposta ma non si da per vinto. Si appoggia allo sportellone e allunga la testa per guardare nella borsa. Bottecchia alza la schiena “Ma per favore!” esclama “Ma si può sapere che vuoi?” Il tono si alza, l’agitazione traspare dalla voce acuta e dalle braccia allargate. “Insomma, ti ho detto che non è il momento, cazzo, e tu mi stai qui come un gufo. Non vedi la situazione? Eh? Non capisci che è un’emergenza?” Il lamento di Campari sembra trarre vigore dall’agitazione di Bottecchia. Fangio chiede nuovamente spiegazioni. “Ecco” continua Bottecchia puntando Fangio con il braccio mentre parla verso Max “Vedi?” Max si stacca dal portellone, porta le braccia verso il corpo con le mani spalancate in segno di discolpa “Ti capisco, non voglio mica importunarti, solo che anche la mia è un’emergenza”
“Un’emergenza?” chiede Bottecchia,
“Si, un’emergenza. Cioè, ora no, ma tra qualche minuto forse si” Bottecchia lascia che le braccia gli cadano lungo il corpo. Chiede spiegazioni. L’altro farfuglia cose incomprensibili e allora Bottecchia maledice chissà che tra i denti, si rituffa nella borsa e rovista con maggior decisione, fino ad estrarre la scatola di tranquillanti. Il viso di Max si allunga e si direbbe quasi un picchio che dopo tanto aspettare trova il suo verme nella corteccia. “Ecco, ecco” dice sporgendosi quasi all’interno dello sportellone “Me ne dai una? Una sola mi basta” Bottecchia, incredulo, si volta lentamente verso Max. “Ma cosa stai dicendo? Ma non sono mica caramelle, sai? Ma sai che roba è questa?”
“Si, lo so, è proprio quello che cerco. Dai, per favore. Ascolta” e così dicendo si fruga nelle tasche vuote “Ti do un euro, anzi due, cinque. Ascolta cinque euro. Però te li porto domani, eh? Dai ci vediamo domani qui a quest’ora e ti porto cinque euro, anzi te ne porto dieci, dieci euro. Però ora dammi una pastiglia, ti prego.” Bottecchia non riesce a esprimere che un generico “Non ho parole” Volge le spalle a Max e si occupa dei due ragazzi. Mentre porge la pastiglia a Fangio, nota che Mario si sta avvicinando al pulmino. Finalmente, pensa.

Il pulmino 19 scorre veloce con la sua nuova ruota posteriore. I ragazzi sono tranquilli, quasi assopiti, la medicina ha avuto effetto in breve tempo. Bottecchia osserva la città scorrere oltre il finestrino. I palazzoni sono stati sostituiti da architetture più delicate, il sole pare filtrare nuovamente tra il cemento. Il viso è contratto in una smorfia di dissenso. Mario guida e canticchia una hit del 1939, il suo buon umore è tornato con l’assistenza stradale e il pneumatico nuovo. Bottecchia gli rivolge lo sguardo, soppesa le parole prima di pronunciarle e quindi chiede “E ora che facciamo?” Mario lo guarda tramite lo specchietto e attende un attimo prima di rispondere “Dici a me?” Bottecchia apre la bocca in segno di ovvietà. Mario allora chiede a sua volta “Come facciamo riferito a che?”
“Riferito al fatto che non abbiamo più una pastiglia e che dobbiamo fare richiesta di una scatola nuova. Non ti pare?” ribatte Bottecchia. Mario emette un fischio in segno di sufficienza “Ma non ti preoccupare, capirai, è vent’anni che porto questo pulmino” Bottecchia vorrebbe saltare sul sedile, ma la cintura glielo impedisce “Mario! Ma le cose sono cambiate” ribatte in tono agitato “Non sono più i tempi in cui uno faceva quello che gli pareva e non rispondeva di nulla. Voglio dire” congiunge le palme come a voler far combaciare la propria idea con quella di Mario “ci hanno dato una scatola nuova di tranquillanti una settimana fa. Ora siamo rimasti senza. Che gli diciamo? Gli diciamo che li hai venduti per dieci euro, che manco hai ricevuto, a un tossico incontrato in periferia?” Mario fa un gesto vago con la mano, emette un fischio simile a quello di prima e risponde “Su, su, non ti preoccupare, risolviamo tutto” Ancora una volta la cintura impedisce a Bottecchia di saltare in avanti. Sente il sangue convogliarsi nel collo e da qui schizzare alle tempie e vorrebbe dire che sarà lui a occuparsene perché sua e soltanto sua è stata la decisione di vendere i tranquillanti a Max, per giunta contro il parere di Bottecchia. Ma non fa in tempo, perché un dosso alto come un bambino di due anni provoca uno sferragliamento atroce nella zona della pedana e una raffica di bestemmie irripetibili da parte dell’autista. Il sangue di Bottecchia ritorna a circolare lungo il corpo. Abbassa il capo, si porta la mano alla fronte e chiude gli occhi.

FINE

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Dopo il bombardamento la strada è ridotta ad un campo di patate. L’ultimo bombardamento risale però a sette decenni or sono. Se le strade sono in queste condizioni non si può incolpare gli stranieri, sebbene, sostiene Mario, i tedeschi in un modo o nell’altro le loro colpe le hanno sempre. “Chi comanda in Europa? La guerra la fanno con i marchi, mica più con i mitra, cosa ti credi?” sostiene, condensando così una ventina di anni di storia economica e frasi da bar. Guerra o pace, la strada è terribile. Buche, venature dell’asfalto, fossi e dossi. Già, dossi artificiali, dissuasori. “Perché?” chiede Mario “Perché?” E allora ci mette in mezzo la moglie del Sindaco, che sicuramente non è tedesca, ma a sentire Mario è assai generosa e allora perché no, perché non immaginare la fedifraga innamorata del meccanico a tal punto da favorire in ogni modo gli incontri con l’amato. “Ancora gli ammortizzatori, Signora?” insinua l’uomo dei motori con la voce di Mario. “Controlliamo pure il pistone come l’altra volta?” (altro…)

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Il pelo

Quando, con un anticipo di soli tre minuti sull’orario stabilito ma forse due perché il telefono non era del tutto affidabile,  si trovò a soli duecento metri dal luogo dell’appuntamento, Bottecchia ricordò di non essersi specchiato prima di partire da casa. Trattenne l’ansia che sentì divampare dalle viscere con una smorfia facciale e si guardò attorno. Gli venne in aiuto la vetrina di un negozio che faceva angolo tra la strada che stava percorrendo e una parallela. Si specchiò nel vetro e giudicò che tutto sommato poteva andare. La peluria sul volto era curata, il colletto della camicia non creava imbarazzo nell’incontro con il golf e le occhiaie, insomma, le occhiaie meritavano una sufficienza e niente più. Portò la mano destra all’altezza dell’occhio e massaggiò con indice e pollice sotto le orbite. Continuò l’esercizio più del dovuto e non perché credesse che ciò avrebbe portato ad un miglioramento della situazione, ma perché la sua attenzione, al di là della vetrina che stava utilizzando come specchio, era stata rapita da un libro impilato sopra altre venti copie dello stesso titolo. Un pieghevole rosso abbracciava il dorso e richiamava il lettore ad una sorta di civico dovere: il libro che ogni italiano dovrebbe leggere. Bottecchia tentò di guardare oltre, ma l’interno del locale gli era precluso dal riflesso del sole sulla vetrina. Per quanto strabuzzasse gli occhi l’unico oggetto che vedeva chiaramente era un pelo di barba intonso che sporgeva dalla restante radura del mento di un centimetro buono. Come era possibile che un tale fusto fosse passato inosservato al primo controllo, Bottecchia non sapeva spiegarselo. Tentò di afferrarlo tra indice e medio, ma non gli riuscì. Riprovò più e più volte, intervallando la battaglia depilatoria con inutili tentativi di scorgere qualcosa all’interno della libreria. Fu una provvidenziale campana a richiamarlo al dovere. Dong. Dong. Dong. Bottecchia colmò in un secondo la distanza che lo separava dal luogo dell’appuntamento, preferì senza dubbio alcuno le gambe all’ascensore, sorpassò con difetto di eleganza un’anziana signora all’imbocco delle scale, divorò i gradini come fossero strati di hamburger e frenò solamente davanti all’entrata dell’ufficio. Tossicchiò, stirò prima la camicia e quindi il maglione, fece una boccaccia nel tentativo di ravvivare i muscoli facciali e quindi suonò il campanello. La porta si aprì in automatico e questo gli procurò un certo sollievo, avrebbe potuto gestire l’entrata senza un faccia a faccia direttamente sulla porta. La stanza era piccola, le pareti verde pisello e il lampadario, mostruoso, pareva una trota nell’acquario delle tartarughe nane. Un tavolone scandinavo a U mostrava la curva della U a chi entrava in quell’appartamento adibito a ufficio di rappresentanza. Una segretaria di mezz’età con un taglio di capelli giovane e sbarazzino avvicinò la sedia alla curva della U spingendosi sulle rotelle. (altro…)

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“Ohi, vieni qui. Ti devo far vedere una cosa” disse Poulidor. Essendo che animavano la stanza due persone, un gatto e un computer, la questione su chi avrebbe dovuto dirigersi verso Poulidor e il computer, pensò Bottecchia, si risolveva in questi termini:  o lui o il gatto. Si, probabilmente era lui, ma non rispose.
“Ohi, vieni o no?”
“Chi, io o il gatto?” chiese Bottecchia. Poulidor girò lentamente il capo e fece “Ma sei scemo?” Bottecchia se ne stava a terra, un paio di metri dalla postazione del computer, sdraiato come un Trimalcione qualsiasi ad un banchetto. Teneva il gomito destro puntellato al pavimento, la testa appoggiata sull’avambraccio, mentre il dito indice della mano sinistra scorreva tra le videocassette della libreria. Poulidor lo osservò per qualche secondo.
“Cosa stai facendo?” chiese infine “Non vedi?” rispose Bottecchia “guardo le tue videocassette. Poulidor si voltò di scatto e si levò a pochi centimetri dalla sedia “Non sono mie, sono di mio padre, lasciale stare.” esclamò. Rimase in silenzio per una manciata di secondi, poi, essendosi accorto di non aver sortito effetto alcuno, ribadì il concetto “Lascia stare quelle videocassette. Non è roba mia. E’ di mio padre”  Il tono della voce era perentorio. Tuttavia le parole lasciavano intendere una preoccupazione eccessiva. Bottecchia percepì il disagio e tuttavia, mosso dalla curiosità, decise di indagare “Ha dei bei film tuo padre. C’è pure Renoir, e… Kurosawa, cazzo, Kurosawa!” E così dicendo tentò di sfilare la videocassetta. Poulidor allungò il braccio, quasi a voler fermare il gesto dell’amico, nonostante fosse ad un paio di metri di distanza. (altro…)

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“E poi a mettersi in regola ti ammazzano. Mi devi credere, sembra che la facciano apposta. Si, io a volte credo veramente che la facciano apposta. Tu mi devi dire perché uno lo devono schiacciare con le tasse. Non basta il lavoro infame, la vita di merda, le malattie? Per me c’è qualcosa sotto. Si, guarda, non può essere che quello: c’è qualcuno che comanda, ma non i politici, quelli pensano solo ad arrafare, no, no, sopra i politici, qualcuno che davvero sta nella stanza dei bottoni. I politici? I politici sono burattini, non li vedi? Quella è gente che si accontenta di vivere alle spalle del prossimo. Chi comanda li tiene lì perché gli fanno comodo. Così, mentre questi si mangiano anche le palle del paese, gli altri traggono le fila. L’altra sera ho visto un video che parlava di una setta, una roba che si riunisce in loggioni…”

 

“Logge, Koblet, si chiamano logge. E quella che tu definisci setta è la massoneria.” lo interruppe Bottecchia. Precisati i termini, diede un sorso alla birra e la posò sul bancone. Non ascoltava il compagno di sgabello ormai da un paio di minuti, ma aveva captato quella che gli era sembrata una castroneria troppo grande per essere lasciata ad aleggiare nel pub. Non che pensasse che il resto del discorso fosse passabile, non per altro aveva abbandonato la discussione ormai da tempo, ma imbastire una discussione di geopolitica con Koblet il lattoniere alle due e quindici del mattino era ben più idiota che lasciarlo sproloquiare.

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