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Archive for the ‘Frasi celebri remixate’ Category

Un pranzo davvero sostanzioso. Forse aveva esagerato. Va beh, un bel rutto e tutto si sarebbe risolto, i rutti risolvevano qualsiasi problema. Non c’era verso di fargli intendere che ruttare non era cosa da Re. Quand’era ancora delfino a poco erano valse le timide punizioni del vescovo di Limonges, Luigi XVI avrebbe continuato a ruttare ogni qual volta lo stomaco gliene avrebbe dato motivo. Diceva di considerarlo un gesto di libertà, ma era chiaro, a tutti i membri della corte, che il Re non conoscesse appieno il significato di tale parola. Più che la libertà, quel gesto esprimeva mancanza di preoccupazioni, leggerezza, godibilità, tutte caratteristiche che Luigi aveva sviluppato in una vita di lusso e agiatezza, lontana dalla Parigi in crisi di fame e identità. La vita del Re, del resto, si era sempre svolta, con l’eccezione di qualche breve spostamento, nell’esilio dorato di Versailles. Le colonie erano lontane e comunque quegli affari non li gestiva lui. Non diversa era la situazione per quanto riguardava la guerra. Non che delegasse tutto ad altri, ma la gestione del potere, in fondo, non gli dava la stessa soddisfazione della carne e del vino. Fino da quando era delfino, qualcuno si era occupato di lui e ne aveva fatto le veci, così che il buon re non aveva imparato né a gestire la propria vita, né la Francia. Ma non se ne preoccupava troppo: il gesuita Berthier non gli aveva sempre spiegato che il suo potere derivava dalla volontà divina?

Appena ruttato, Luigi si massaggiò la pancia a due mani, guardandosi attorno. Non si era accorto dell’arrivo del Duca di Lincourt. Aveva uno sguardo a dir poco preoccupato e sfregava continuamente la mano sinistra sul poggiolo della poltrona. “Che vi aggrava, Duca?” “Sire, un fatto terribile è accaduto in quel di Parigi.” “Mon dieu! Che mai può essere successo?” Luigi pensò ad una guerra, ma come era possibile che il nemico fosse già a Parigi? No, non era possibile. “Mi dica, dunque.” “Sire, il popolo ha attaccato e preso la Bastiglia!” La Bastiglia? Ma che se ne potevano fare dei bifolchi di una prigione? Che moda era questa di lottare per conquistare la galera? “La Bastiglia….” “La situazione è gravissima Sire…” Esagerato, non era la prima rivolta per Parigi, una generosa distribuzione di pane e tutto sarebbe tornato alla normalità in breve tempo. Ma non voleva smorzare la tensione del Duca, la sua partecipazione all’evento lo divertiva. Una rivolta. La prigione, poi. Mai sentito dire che una rivolta avesse cambiato il mondo. Ad una prigione, poi. Mah.

− È una rivolta?

− No, Sire, è una rivoluzione.

Rivoluzione. Ora ricordava: qualche anno prima ne avevano fatta una in America ed era nata una reoubblica. Emise un rutto. Forse il giorno dopo si sarebbe tutto risolto.

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Tirone era un ottimo scriba. Schiavo di origine greca, aveva potuto migliorare la propria triste condizione esistenziale grazie all’abilità nello scrivere. Rapido e preciso, poteva stendere frasi e parole su ogni supporto, legno, cera o papiro che fosse. Per questo motivo il senato romano lo aveva inviato al seguito di Giulio Cesare nella missione in Anatolia. Compito di Tirone era inviare alla capitale frequenti dispacci. Ora, sebbene questo incarico fosse di grande prestigio e avrebbe potuto, chissà, portare pure al suo affrancamento dalla condizione di schiavitù, Tirone non ne fu entusiasta. Non era infatti persona di fegato, amava la pace delle biblioteche e le uniche battaglie che si concedeva di combattere erano quelle contro le bottiglie di vino.

Arrivò il giorno della battaglia. L’esercito romano si sarebbe scontrato contro quello di Farnace II, re del Ponto. Tirone per tutto il giorno precedente tremò di paura. Come avrebbe fatto a seguire la battaglia da vicino, lui che rabbrividiva al solo pensiero di una daga? Chi avrebbe spiegato a quei barbari asiatici che lui era solamente uno scribacchino e perciò non doveva avere la testa mozza? No, non ce la avrebbe fatta. Cercò l’ardore mancante in un forte vinello di Cappadocia. Ah, aspro e duro, quello che ci voleva, pensò. E non elemosinò. Sentiva il coraggio nascere nello stomaco e propagarsi negli arti, nella testa, perfino nell’animo. Si, si sentiva un leone, quasi avrebbe preso a pugni quel faccia da scemo d’un oste…

Ma se il vino tanto aveva potuto con l’animo, poco poté con il fisico e il nerboruto oste, abituato a ben altri aggressori, lo stese in due e quattro otto, lasciandolo stordito e ubriaco nello sgabuzzino a ripensare alle sue malefatte.

E battaglia fu. E senza Tirone. Quando si riprese dalla colossale sbornia mista a botte da osteria, uscì per la strada del paese e capì che tutto era finito. Feriti, cadaveri, sangue, lamenti, armi dismesse, soldati esausti ovunque. Non si capiva nemmeno se la battaglia fosse stata vinta o persa. Tirone non osava chiedere, chiunque l’avrebbe potuto accusare di viltà e giustiziarlo seduta stante. Il messaggero, impaziente, chiese il dispaccio per correre verso il porto più vicino. Se il povero Tirone non avesse riferito a breve della battaglia, la sua testa sarebbe pari modo finita sulla picca di un lanciere. Doveva sapere e in fretta. Si avvicinò ad un gruppo di soldati che giocavano ai dadi. Pensò di poter recepire qualcosa dalle loro parole, ma non parlavano né il greco né il latino. Maledizione a Roma e a quella babele di popoli che era diventata! Il messaggero chiamò ancora. Iniziava ad indispettirsi.

Poi fu silenzio. Il gruppo di giocatori si alzò in fretta e gridò: “Ave Cesare!” Era proprio lui. Si fece largo tra i soldati, prese in mano i dadi e li lanciò contro la barriera. Era un tiro eccezionale, assolutamente imbattibile. Cesare allora, con fare teatrale, alzò lo sguardo al cielo e pronunciò una frase a riguardo di quel tiro fortunato che Tirone non si lasciò sfuggire. E tutti i superstiti della battaglia esultarono. Il messaggero, intanto, scese da cavallo e si rivolse verso Tirone con fare minaccioso. Alquanto adirato, lo prese per il bavero, ma prima ancora che potesse accusarlo, Tirone gli mise davanti al viso un foglio scarabocchiato in fretta e furia con impresse le parole che Cesare aveva appena pronunciato:

Veni, vidi, vici!

(venni, vidi, vinsi)

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“Alba pratàlia aràba et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba” *(vedi nota fondo pagina)

scrisse. Poi gettò la penna d’oca con decisione e si strofinò il viso con i palmi delle mani, sbuffando. No, a volte non ce la faceva proprio. Forse non era il suo lavoro, forse solamente la sua natura era un’altra, magari arare i campi come suo padre o costruire edifici come suo cugino. E invece così avevano deciso per lui: frate. Si alzò e si portò alla finestra. Verona dormiva, nessuna luce affiorava dalle tenebre. Era ormai ora di cena, del resto. Pensò che quell’anno l’inverno era arrivato in fretta. Chissà come se la cavava suo padre al paese, un inverno così precoce avrebbe potuto provocare non pochi problemi. Se fosse stato ancora là avrebbe potuto aiutare, non sapeva di preciso come perché aveva abbandonato i campi in tenera età, ma sempre meglio di stare lì a copiare stupide pagine di lingua latina in quel monastero di gente silente. Ma gliela avevano tagliata la lingua a questa gente? O forse entro poco tempo sarebbe lui stesso diventato un animale solitario e remissivo, uno scribacchino la cui unica funzione era ricopiare cose scritte da altri nella notte dei tempi? Scosse la testa e tornò alla sua postazione, se l’abate l’avesse visto bighellonare lo avrebbe sicuramente redarguito. Con lo sguardo, si intende. Quella postazione in legno, statica e squadrata, era il simbolo della sua virilità ingabbiata. Guardò il foglio. Quella scritta in dialetto, da lui vergata di straforo nel codice ricopiato, lo fece sorridere. Gli sembrò un riscatto: si, avrebbe ricopiato codici tutta la vita, ma ogni tanto avrebbe aggiunto, qua e la, piccole postille, proverbi che ricordavano la sua infanzia campagnola. E poi, non era forse lo stesso destino, quello del contadino e dell’amanuense, solcare campi con uno strumento e seminare semi? Il suo campo non era più marrone, ma bianco, il suo seme non più verde, ma nero d’inchiostro. Così stavano le cose. Sentì entrare l’abate. Seppellì velocemente il foglio con la postilla in dialetto in una pila di carta. Non lo avrebbe mai letto nessuno, pensò. E la tristezza lo assalì di nuovo.

*Frase ritrovata a margine di una pergamena antica. E’ stata ivi apposta nel VIII sec. da un anonimo amanuense veronese. Conosciuto come “indovinello veronese”, è considerato il più antico esempio di lingua romanza italiana scritta.

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Rinnoviamo. Questo blog ha bisogno di una ventata di novità. Niente di rivoluzionario a dire il vero, per un sentimentalconservatore come me ogni movimento deve essere ponderato ed assimililato. E poi, se proprio vogliamo dirla tutta, si nasce incendiari e si muore pompieri, come diceva uno che ne sapeva più di me. Bando alle ciance, scusate ma mi perdo sempre una volta là e l’altra qua. L’idea è questa: ogni settimana citerò una frase famosa e aggiungerò un mio simil commento. Vorrei dire breve, ma conoscendomi…

Bene. Ecco la prima:

“Parigi val bene una messa”

disse il buon Enrico IV in una calda mattina dell’estate 1593. Avrebbe dovuto rinnegare la fede ugonotta e convertirsi al cattolicesimo per cingere finalmente la corona di Parigi. Questo lo disturbava non poco, ricordava sempre con nostalgia quelle belle giornate di guerra di religione quando, con gli amici ugonotti, rincorreva i cattolici in fuga cantando “Je suis Huguenòt”. Il pensiero non gli permise di prendere sonno la notte precedente al fatidico pronunciamento. Ma, all’improvviso, gli apparve in sogno uno strano personaggio dalla parrucca bianca e lo sguardo arcigno. Gli parlò del futuro della città, dei meravigliosi boulevard, del pret-a-portet, degli illuministi, dei meravigliosi palazzi e di tutti quei personaggi che l’avrebbero popolata negli anni a seguire. Ma Henri resisteva, “No, no, je suis huguenòt” e l’apparizione le tentò tutte, pure la carta Psg, ma non ottenne nulla finchè non accennò al Moulin Rouge e alle scosciate ballerine di Can Can. Con un rivolo di bava quel vecchio sporcaccione, reduce da più battaglie tra le gambe di donne che su quelle di un cavallo, non potè che dire “Oui! Oui! W le Pape!”. Superato l’abbandono ad Eros, si disse però rammaricato di dovere abbracciare la fede rivale. Ma l’apparizione lo rassicurò, spiegandogli che a quelli ci avrebbe pensato lui. Incuriosito, Henri chiese chi diavolo fosse. “Je suis Maximilien Robespierre, monsieur Henri Bourbon…” Risvegliatosi, Enrico chiamò il fido scudiero e disse “Preparati, si va a messa” “Che era imbriaco ier sera messer Enrico?” “No, coglione, la giarrettiera val bene una messa.” Ma della prima parte della frase non v’è rimasta più traccia e la seconda, diciamocelo, non era poi molto elegante sulla bocca di un Re e così fu cambiata.

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