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Immigrato sardo davanti la torre Pirelli, 1969 (U. Lucas)

Immigrato sardo davanti la torre Pirelli, 1969 (U. Lucas)

Un uomo nato in un recondito paesino della Sardegna, cresciuto a pecorino e (poca) carne d’agnello. Esistenza grama, faticosa, sporca, senza speranza. Ma quella è, quella del nonno, del padre, dello zio, l’unica possibile perchè l’unica che si è mai vista da quelle parti. Poi un giorno, dopo secoli di tradizioni immutabili, proprio durante la tua generazione, tutto cambia. A dir il vero le pecore continuano a fare la lana, le mucche il latte, la terra quei pochi vegetali che hanno sfamato i tuoi avi. Ma qualcosa è cambiato, non nel tuo paese, forse nemmeno in Sardegna, ma nel mondo, si, tutto è cambiato. La tua lana non vale più nulla dicono, i tuoi generi alimentari non hanno più mercato e la vita che hai fatto fino allora, semplicemente, non si può più fare. Non capisci perchè le cose vadano così, nessuno te lo spiega e comunque non capiresti. Puoi scegliere, perchè in democrazia ci sono sempre più opzioni. E allora il bivio è netto: morire di fame o andarsene. E così ti sei ritrovato qui, con case più grandi di alberi, auto ovunque e solitudine, tanta solitudine. Ed ora che sei li, in quell’antinferno di calcestruzzo e motori, senza nemmeno un animale lanoso che possa in qualche modo rendere meno duro il distacco. Perchè è successo? Eravamo poveri al paese, ma stavamo bene così, s’è sempre lavorato, figliato, votato, combattuto, se si doveva. E non si capiva perchè si doveva fare la guerra, ma tutti sapevamo che c’era un nemico e allora il territorio va sempre difeso. Ma ora il nemico non c’è. Solamente qualcuno ha deciso che le nostre attività non avevano più senso di esistere. Si dice che c’è chi le cose le fa meglio di noi. Ma chi fa la lana meglio delle nostre pecore, chi lavora meglio la lana delle nostre donne? Bisognava andarsene. Ma ora? Che ne sarebbe stato dei terreni al paese? E soprattutto, che fare in quella città senza pascoli? Ci fosse stata almeno una pecora.

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Immaginate di svegliarvi una domenica mattina e accorgervi che, quasi per incanto, il mondo non è più quell’edulcorato prisma che avete lasciato la sera prima. Immaginate di sentirvi improvvisamente attanagliati da un senso di angoscia esistenziale, mentre al vostro fianco, in un lercissimo letto, una sconosciuta Venere in pelliccia si accende una sigarette e atteggiandosi da Femme fatale vi chiede di procurarle un pò di eroina. Allora sentite anche voi un bisogno urgente di polvere marrone, di erba e acidi non sapete più che farne, avete bisogno di altro, vi sentite svuotati, disillusi e l’unica cosa che può farvi sentire vivi è sfidare l’angelo nero, il volto ineluttabile della morte nei cui occhi non avete paura di specchiarvi. Correte, correte, correte senza prestare il minimo interesse a ciò che vi circonda, maledite il vostro uomo che non arriva all’appuntamento, mentre stringete nella vostra mano tremante i ventisei dollari che vi permetteranno di ascoltare finalmente il calore del vostro corpo, il battito del vostro cuore, fregandovene di ciò che avviene in Europa e di tutte le feste che verranno. Siete solo voi e lei, l’eroina e voi. La sentite irrorarvi le vene e mentre chiudete gli occhi pensate che la vostra vita è questo, nient’altro che un foro in un braccio, una puntura di zanzara e “il mondo è alle vostre spalle.” Irrimediabilmente.

Non è un’apocalisse postmoderna o il delirio depressivo di chi sta cercando di uscire dal tunnel. No, questo è la rivisitazione di un album, un’opera che rappresenta un taglio netto, uno di quei grandi avvenimenti che segnano un solco tra il pre ed il post. Siamo nel 1967 e nel frattempo nella costa pacifica imperversava la summer of love, i Canned Heat cantavano la pace, l’amore e le strade d’America percorse in lungo e in largo da beatnik e frichettoni. Ancora l’anno successivo gli studenti metteranno fiori nei fucili delle reclute in partenza per il Vietnam, il mondo sembrerà ad un passo dal definitivo cambiamento, per poi ripiegarsi in se stesso in un batter d’occhio e lasciare solamente rabbia e amaro in bocca a chi a quella stagione aveva creduto veramente. Dunque, mentre San Francisco e dintorni sprizzavano ottimismo e droghe psichedeliche, nell’altra costa Usa un gruppo chiamato The Velvet Underground scriveva cose troppo brutte per essere vere, soprattutto in quel momento storico. Dicevano, e ciò sembrava davvero anacronistico, che la politica non interessava più, il sesso si faceva con se stessi, l’unico vero amore era verso ciò che era in grado di riempire il vuoto lasciato dalla dipartita speranza: l’eroina. Non a caso siamo a New York, la città della finanza creativa, non a caso dietro quei ragazzi c’era un certo Andy Warhol, uno in grado di rivisitare e rivendere i simboli dell’ideologia come gadget da due soldi. La rivoluzione venduta con i saldi a Carnaby street.  Era troppo presto e non ebbero successo al momento. Era troppo chiedere ad un pubblico abituato a sognare con le dolci ballate di Bob Dylan di buttarsi in cinquanta minuti di viole violentate, batterie a ritmo di cuori in overdose e scarnificate storie di spacciatori e sessualità ambigua. Nel decennio successivo l’album sembrerà molto più attuale, le atmosfere cupe saranno la  nuova realtà e del peace and love non rimarranno che  le t-shirt nei grandi magazzini. Questo album, The Velvet Underground & Nico, con quella banana in copertina che non significava e non voleva significare proprio nulla, era sicuramente in anticipo rispetto al corso dell’umanità.

Io ho preso una grande decisione

proverò ad annullare la mia vita

perché quando il sangue comncia a scorrere

quando sale il collo della siringa

quando mi sto avvicinando alla morte

E non potete aiutarmi, certo non voi, ragazzi

né voi, ragazze dolci con le vostre parole dolci

potete andare tutti a farvi una passeggiata

ammetto che non so proprio niente

e ammetto che non so proprio niente.

Forse, nel 1967, tutto ciò era troppo brutto per poterci credere.

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