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pesce

C’era una volta un pesciolino rosso che viveva in una vaschetta di vetro e non solo non aveva mai nuotato in altro luogo, ma neppure aveva mai visto altro pesce. Quando aveva fame, una ragazza bionda provvedeva al suo bisogno. O meglio, fin da quando era nato, o almeno fin da quando la sua mente poteva ricordare, qualcuno aveva sempre deciso a che ora aveva fame e a che ora l’acqua nella quale sguazzava era abbastanza sudicia da essere cambiata. Non aveva mai dovuto chiedere nulla e non si era mai posto problema. Ogni giorno, ad una determinata ora, la ragazza arrivava e gettava alimenti triturati nella vaschetta. Poi, ogni settimana, lo metteva in un bicchiere e cambiava l’acqua. Era quello il momento più emozionante, cinque minuti in cui il mondo era si ancor più ristretto, ma pareva comunque diverso. Niente più.

Arrivò la primavera. Un giorno la ragazza bionda mise la vasca su un davanzale che guardava verso il mare. Il pesciolino smise di nuotare in circolo, come faceva sempre, e si fermò a fissare il mare, dimenticando perfino di muovere la pinna posteriore. Era stupefacente quanta acqua ci fosse in quel mondo. E, pensò, ancor più stupefacente era che il mondo era così vasto. Si accorse che non si era mai chiesto quanto grande fosse il mondo e se, in questo grande mondo, ci fossero altri come lui. Da quel dì ogni giorno la ragazza bionda lo portava sul davanzale un paio d’ore e lui passava quel tempo a guardare quel grande mare in cui non avrebbe mai nuotato. Poi, quando rientrava nella casa, trascorreva le altre ore a pensare che l’acqua sempre acqua è, ma non sempre ha lo stesso valore.

Un giorno di maggio arrivò in casa il cuginetto della ragazza bionda. Era un bambino pestifero che giocava continuamente a pallone. Fu così che una pallonata scagliata con troppa veemenza colpì il vaso del pesciolino rosso sistemato sul davanzale. Questo cadde e il pesciolino fece un così gran volo che finì in mare. Non gli pareva vero, quel sogno remoto era finalmente realtà, ora era nel mare aperto e poteva esplorare quel mondo a lungo negatogli. Era così abituato a nuotare in cerchio che non riusciva quasi ad andare dritto.

Ma il mare a lungo sognato non era un luogo idilliaco. Il pesciolino rosso scoprì infatti che i suoi simili erano grandi e spietati e tutto il mondo pareva un gran rincorrersi dove i deboli finivano sempre sconfitti e mangiati. Nessuno era interessato a parlare con lui e tutti occupavano il loro tempo a guardarsi le spalle dai più grossi e a cacciare i più piccoli. Ebbe presto nostalgia della sua vasca e cercò rifugio tra gli scogli, dove vedeva quelle figure umane che gli ricordavano un passato più felice. Un giorno uno di questi umani allungò un retino verso lui e il pesciolino rosso non oppose resistenza. Quel grande mare non era il suo mondo.

Finì in un sacchetto di plastica colmo d’acqua. Qui passava le sue giornate, appeso attraverso un gancio di ferro al baraccone di un carro ambulante. Alle fiere di paese i bambini lo guardavano e indicavano, mentre lui poteva muovere solamente la pinna, senza spostarsi che di un centimetro. Vicino a lui c’erano altri pesciolini rossi, anch’essi imbustati e perciò impossibilitati ad un qualsiasi contatto. Si era salvato da quell’inferno di mare, ma si ritrovava in uno spazio angusto, dal quale vedeva i suoi simili, ma non poteva comunicare.

Venne infine un giorno in cui il suo sacchetto fu staccato dal gancio e consegnato ad uno di quei ragazzi che vedeva percorrere le fiere. Pensò che presto sarebbe ritornato in una vasca e li avrebbe terminato i suoi giorni. Lontano dai cattivi, ma solo. Il ragazzo camminò fino alla stazione del paese. Strano posto per abitare, pensò il pesciolino rosso. Ma il ragazzo non abitava li. Si sedette su un muretto circolare. All’interno di questo cerchio di mattoni il pesciolino poteva vedere una fontana zampillante e al suo interno una decina di pesci rossi come lui. Il ragazzo notò che il pesciolino rosso fissava la fontana. Alzò il sacchetto all’altezza del suo sguardo e lo guardò attraverso la plastica. Il pesciolino rosso lo fissò negli occhi a lungo. Passarono dieci, venti, trenta secondi in cui i due continuarono a fissarsi negli occhi. Poi il ragazzo si alzò, si voltò verso la fontana, aprì la busta e gettò il suo contenuto nell’acqua.

Il pesciolino rosso era ormai a metà del suo percorso di vita. Visse i rimanenti anni in quella fontana con altri pesciolini rossi. Ogni tanto quel ragazzo che gli aveva donato la vita ritornava e portava un suo simile. Con qualcuno andava d’accordo, con altri no, ad alcuni, pochi, volle anche molto bene. Quando se ne andò, se ne andò felice. Aveva trovato la sua strada. Aveva vissuto.

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C’era una volta un novello fantasma che, di poco uscito dall’accademia delle anime erranti dove gli era stato conferito il lenzuolo bianco, decise di cercare un’occupazione. Ora, dovete sapere che pure nell’aldilà la meritocrazia è un concetto ancora da venire e i posti migliori (ad esempio fantasma formaggino, ghostwriter, gol fantasma, fantasma del film Ghost ecc.) erano già occupati da chi aveva amicizie molto in alto come il gran faccendiere fantasma di Canterville. Ma il nostro neofantasmino conosceva appena appena gli spiriti del bancone del bar e fin da subito dovette arrabattarsi con quel che trovava. Iniziò una ricerca spasmodica, castello per castello, palazzo per antica dimora, ma si trovava sempre di fronte trasparenti segretarie, nemmeno stimolanti zone che più non aveva, che gli ripetevano la stessa frase: “Attenda, le faremo sapere qualcosa, prima o poi.” Attenda. Si fa presto a dire attenda ad un fantasma, ma questo può attendere pure per l’eternità! Un giorno trovò lavoro in un albergo abbandonato. Era al settimo cielo, pagò pure da bere agli spiriti del bancone, sebbene avesse avuto sangue genovese e scozzese nella sua precedente vita. Iniziò con smania, ma il lavoro era veramente pessimo: niente persone vive da spaventare, tutto ciò che doveva fare era raccogliere le lenzuola sporche dei ricchi fantasmi che andavano a svernare in quell’albergo. A parte conoscere la natura sporcacciona dei suoi pari, il sottopagato fantasma non aveva nulla da imparare in quel posto. Trovò in una fabbrica di gadget per Halloween, ma le cose non migliorarono: il capo era un fantasma viscido con tanto di lenzuolo di seta che aveva occhi solo per la segretaria, femmina lasciva con lenzuolo cortissimo in modo da far vedere tutta l’anima, ignobile spirito di una falsità incredibile testimoniata dalla presenza dei fori facciali sia nella parte anteriore sia in quella posteriore del lenzuolo. L’invereconda donna lo detestava e tanto fece che riuscì a farlo licenziare. Il povero fantasmino non trovò più nulla e si dannò l’anima, cosa alquanto pericolosa per un fantasma. Non cercava più lavoro, passava le giornate al bancone e, trascurandosi, non si accorgeva nemmeno che il suo lenzuolo si stava ingrigendo. Poi un giorno ebbe un’intuizione, prese due sfaccendati spiriti del bancone e li portò con sé in un  paese abbandonato da tutti, viventi e non. Iniziarono a fabbricare lenzuoli a mano, spiriti (questa volta intendiamo alcolici) fatti in casa, zucche intagliate ed altra oggettistica che a noi viventi dice poco, ma per i fantasmi sono cianfrusaglie di una certa importanza. Insomma i tre si arrangiavano, certo non arricchivano, ma per lo meno sopravvivevano e avevano ridato vita (si fa per dire…) ad un vecchio borgo abbandonato. Ma il nostro evanescente amico aveva altro in mente, non poteva dimenticare le disavventure passate e allora decise di fare il fantasma a tempo perso e a modo suo. Un giorno, che sarebbe l’equivalente di “una notte” in una favola per viventi, il fantasma tutto intabarrato si recò in città per sbugiardare chi doveva pensare al lavoro dei fantasmi ed invece faceva tutt’altro per non dire nulla. Fu così che la notte dopo i fantasmi si svegliarono con diverse sorprese: c’erano cartelli appesi alle agenzie del lavoro con scritto “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”, un grande scritta all’entrata del Centro per l’impiego diceva “L’ozio nobilita l’uomo”, mentre molti politici si trovarono il lenzuolo imbrattato con la frase “L’insopportabile fatica di non far nulla”. Ne nacque un caso, si parlò di terrorismo 2.0, eroe dei nostri tempi, lo si descrisse come genio e come fanafarone che non voleva abbassarsi a fare non si sa bene che lavoro, si scomodarono figure come Ned Ludd, Guy Fawkes, Che Guevara e pure il buon Gesù, i più arditi. Si fecero leggi ad personam, si scrisse molto. Ne rimase sconvolto e decise di lasciare un’ultima scritta: “Non avete capito una fava. Stronzi tutti.” Non sappiamo come la prese l’aldilà 2.0, perchè il nostro si ritirò nel suo paesello e visse, o meglio vagò nelle tenebre, se non felice e contento, per lo meno occupato.

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C’era una volta una mucca, una giovane e bella mucca bianca e nera che viveva in un paesino dell’appennino lunigianese, lungo quella Linea Gotica che divideva la parte occupata dai tedeschi da quella liberata. La mucca, Mukky era il nome che le avevano dato le compagne di stalla, ogni notte sentiva aerei chiamati “Pippo” ronzare sopra la sua stalla ed ogni volta sembrava che quello yankee di un aereo dovesse buttare giù chissà che bomba. Vi erano attimi in cui il vento, beffardo, simulava il sibilio della bomba, altre in cui l’esplosione detonava senza preavviso alcuno, con grande spavento di tutte. Mukky era giovane e la guerra le passava a fianco senza distrarla dai pensieri di gioventù, per lei altro non era che una delle tante bizzarre e pericolose follie degli uomini, quelle azioni che loro non potevano spiegarsi in alcun modo. Ma l’indifferenza bovina fece presto spazio ad un sentimento nuovo, un misto di orgoglio e desderio di novità. A scatenarne l’istinto ribelle fu un fatto increscioso: un giorno giunsero alla stalla soldati della Wehrmacht, alti, biondi, impettiti e con un linguaggio crudo e violento, così lontano dalla dolcezza del muggito. Picchiarono lo stalliere (e fin qui niente di male, pensò Mukky) e presero con se molte mucche, tra le quali due cugine ed una zia della nostra. Fu allora che Mukky decise che tutto ciò doveva finire, era inammissibile. Saltò su un carretto e aizzò le altre mucche con muggiti di fuoco e disse che non era possibile rimanere zoccoli negli zoccoli e guardare inermi le proprie compagne deportate e maltrattate da quattro pistola vestiti di grigio, bisognava reagire e riprendersi il proprio onore bovino. Le compagne di stalla in un primo tempo ascoltarono attonite, poi il sangue si scaldò nelle vene di pezzate e brunalpine, frisone e quant’altre, iniziarono a battere gli zoccoli e in un tripudio di muuu si gettarono fuori dalla stalla, ripresero i malfattori teutonici e, legatili sui gioghi, li buttarono infime nel letame, il posto da cui erano venuti e sarebbero dovuti ritornare. Dopo quella vittoria le mucche presero coscienza della loro situazione, dei loro diritti e doveri di abitanti del pascolo e della stalla. Mukky si atteggiò a capo popolo, si legò un bel fazzoletto rosso al posto del giogo (che fu bandito) e divenne il terrore non solo dei tedeschi, ma pure dello stalliere, che, nostalgico della ventennale apatia di quelle contrade, non vedeva di buon occhio le rivendicazioni vaccine. E fu così che l’infimo traditore, nella speranza di riaccomodare la situazione, si mise d’accordo con l’amico crucco, lo aiutò ad entrare in una notte buia nei meandri della stalla e fece così in modo che Mukky fosse catturata e deportata il mattino seguente. Grande fu lo sconcerto delle altre mucche quando la videro portare via incatenata il mattino seguente. Nei giorni che seguirono la tristezza pervase la stalla, da ogni dove giungevano notizie terribili di esecuzioni e banchetti a base di bovino. Poi la guerra finì e, per le mucche ma non solo, tutto tornò come prima. Le speranze di cambiamento che erano aleggiate con il muggito di Mukky erano rimaste lettera morta, perfino quel fetente d’un fascista dello stalliere era rimasto al suo posto. Una  mattina le mucche furono svegliate dalle risa dei bambini e si affacciarono per capire l’origine di tanta ilarità. Con grande stupore di tutte videro lo stalliere immerso nel letamaio fino al collo, legato ad un giogo sopra cui era fissato un cartello con la scritta “Traditore”. Se vi inoltrate per quelle contrade, alcune mucche oramai molto vecchie vi racconteranno che quel giorno ad alcune di loro parve di vedere sulla cima del monte antistante la sagoma di una mucca con il fazzoletto rosso al collo. Forse sono solo suggestioni di alcune, ma tutte, non una esclusa, vi diranno che da allora, nella notte tra il 24  e il 25, se vi affacciate in quei borghi ormai lontani dalla civiltà, udirete il muggito di una mucca ribelle che, sebbene per poco tempo, credette che la stalla poteva essere cambiata.

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