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Non era la prima volta e manco la seconda. Però succedeva quasi sempre di maggio. Quel 11168124_10206500434211296_3140154991112198997_ngran mese di merda di maggio, diceva tra sé Luigi. Ma non ci credeva nemmeno lui e comunque non avrebbe avuto il coraggio di dirlo. Ci sono cose che non si dicono. Non avrebbe mai detto che non esisteva la Madonna, seppure oramai ci credeva poco e non avrebbe mai detto che maggio è un mese di merda. Perché non sono cose che si dicono. O meglio, le dicono solo alcuni, quelli a cui piace trovarsi sempre al di là della barricata e ribaltare il pensiero comune senza motivo e senza ritegno. Ma non lui. Un tempo adorava il maggio. Lo adorava nonostante il fieno da falciare, l’orto da seminare, gli zoccoli del padre da evitare. Poi qualcosa si era incrinato e niente era stato come prima.

Quando gli prendevano quelle giornate amare l’entusiasmo attorno a sé lo infastidiva. Gli pareva quasi che quelle risa e quelle bestemmie e quei colpi sordi di francesini sul balcone dell’osteria facessero parte di una grande orchestra il cui unico scopo fosse tormentargli l’anima, prenderlo per i fondello. Erano giornate in cui non sopportava che gli rivolgessero la parola, che non gliela rivolgessero, che gli offrissero da bere, che lo escludessero dal giro di bevute, che giocassero a carte, che non le estrassero nemmeno dalla busta. Poi finalmente si decideva a rompere l’incanto e prendeva le scale dell’osteria senza dire nulla a nessuno. Continua a leggere »

Posteri

“B&B Dissolvenza” è una locanda immaginaria creata da me e il mio amico fotografo Franco Beccari (altri meravigliosi scatti di Franco li potete trovare nel suo profilo flickr) dove una narrazione accompagnata da una fotografia progressivamente scomparirà, lasciando a l’ospite il compito di immaginare l’antefatto e il prosieguo. Questa la quarta puntata.

Matteo

Quando ero in carne e ossa e avevo un castello a ripararmi da pioggia, acqua, vento e feci mi trovavo spesso a pensare al momento della mia dipartita. Al giorno d’oggi in codeste contrade si è perso l’uso della spada e pure delle moderne diavolerie atte a macellare cristiani e infedeli non mi pare di notare che sporadiche apparizioni da molti decenni a questa parte. Ai miei tempi, però, l’arma la si teneva in pugno ben più spesso del membro e quindi non era insolito, tra un assedio e una schermaglia, riflettere sull’ora tremenda. E visto che son morto assai vecchio per la moda del tempo, ho avuto molte lune per meditare il mio trapasso. Gli ultimi anni della mia vita, quando oramai l’armatura pareva un macigno e i figli mi avevano accantonato su un trono per potersi liberamente scannare tra loro, questi pensieri si erano fatti insistenti. Per tutta la vita avevo creduto che una alabarda piuttosto che un dardo avrebbero consegnato la mia gloria al buon Dio. Allora pensavo come i miei cavalieri avessero celebrato la dipartita del lor signore, come i nemici reso omaggio a cotanto avversario, come le damigelle innamorate si sarebbero prostrate lacrimanti nell’ora dell’addio al viril guerriero morto in eroiche circostanze.  Invece volle il destino che la mia barba si facesse bianca, le mie membra anchilosate e la mia mente libera da campi di battaglia. Al mio trono si prostravano leccapiedi di cui mi interessava assai poco e tanto meno mi pareva d’uopo immaginare come avessero reagito alla morte di quello che era oramai soltanto un vecchio. L’età longeva avrebbe annacquato la solennità della mia dipartita. Un vecchio che muore, per quanto Re ed eroe è pur sempre un vecchio, e la gente non piange o finge di piangere. E non si ferma nemmeno a ricordare, perché ha negli occhi la pelle raggrinzita, il capo canuto e il puzzo di merda e di piscio e non l’elmo e lo scudo che lo resero celebre anni addietro. Ci se ne fa una ragione. Era vecchio, si dirà. Fu allora che iniziai a pensare a qualcosa che rimanesse ben oltre quella che si prospettava una scialba cerimonia di commiato. Nessuno si sarebbe dimenticato di me se un gigante di pietra gli avesse ricordato le gesta nei secoli dei secoli. Gli ultimi giorni a codesto mondo li passai ad immaginare la mia scultorea figura. Volli che rappresentasse un guerriero sicuro e imponente e volli pure che non fosse sola, per dimostrare che non ero un lupo solitario come negli ultimi anni di vita potrebbe esser parso. Solamente chi ha lasciato traccia di sé in vita ha una statua a ricordarne le gesta. Ritrovai l’entusiasmo dei tempi andati e dolce mi fu il trapasso. La consapevolezza di aver raggiunto la massima onoreficenza possibile, una statua, mi ha accompagnato per tempo immemore, almeno fino al vostro pazzo secolo. D’un tratto la gente pare aver perso memoria dei tempi che furono e sovente mi capita di sentire la vostra gioventù domandarsi chi fosse stato questo altero uomo di pietra. Uno dei tanti ad avere una statua, risponde qualcuno. Una statua, oramai, pare non la si neghi a nessuno. Che poi la mia sia la più bella e l’unica davvero motivata, ha poca importanza. Ma se chiedi a quelle genti di ogni razza e regno che passano senza degnarmi di sguardo alcuno cosa renda l’uomo davvero degno ai posteri, questi ti diranno l’aeroporto. Il più importante si prende il nome dell’aeroporto. Fossi ancora il guerriero che fui scoccherei un dardo per ognuno di quei grifoni metallici che vedo fendere l’orizzonte ad ogni ora del dì e della notte. Ma le mie membra sono di pietra e i miei pensieri non si fanno parola. Tanta è la rabbia verso le vostre irriconoscenti menti che ho deciso di volgervi la schiena e pure il culo. Una cosa non avevo capito quand’ero ancora in carne ed ossa e avevo un castello a ripararmi da pioggia, acqua, vento e feci: l’eternità è mutevole. Come la vita.

Pentimento

“B&B Dissolvenza” è una locanda immaginaria creata da me e il mio amico fotografo Franco Beccari (altri meravigliosi scatti di Franco li potete trovare nel suo profilo flickr) dove una narrazione accompagnata da una fotografia progressivamente scomparirà, lasciando a l’ospite il compito di immaginare l’antefatto e il prosieguo. Questa la terza puntata.

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Ti avevo chiesto un posto lontano da orecchie indiscrete. Ti avevo chiesto che non ci fosse nessuno. Ti avevo chiesto di presentarti puntuale. Ti avevo chiesto un punto preciso. Niente. Non ne hai centrata una. E’ passata mezzora dall’orario prestabilito e io mi ritrovo a vagare tra navate, absidi e colonne alte come alberi e dovresti sentire che frastuono fanno i passi in un luogo dove puoi ascoltare a metri di distanza le preghiere sibilate da beghine assorte nella trascendentale ammirazione della Vergine Maria. E quel giovane pretino, che pare giunto da chissà quale amena provincia, che mi squadra con occhi che paiono voler lacerare ben oltre la carne. Sbatte il portone d’ingresso e oscure figure di uomini e donne si perdono tra i chiaroscuri e le infinite prospettive. Alcuni di loro appaiono nelle fessure che la pietra concede tra le altre navate per poi scomparire e ricomparire ancora. I loro passi sono cadenzati, ritmati sulle litanie delle beghine. Le loro movenze non sobillano lo sguardo del pretino di provincia. Solamente delle mie suole si percepisce l’eco, solamente il mio portamento provoca sdegno agli astanti, solamente il mio corpo è lambito dalla luce ovunque vada. Sono una presenza ingombrante, fuori luogo. Ti avevo chiesto di perdonarmi, ti avrei spiegato tutto, volevo solamente raccontarti la mia versione, presentarti le mie scuse. Tu tacevi, io volevo solamente dimostrare il mio pentimento. Allora mi hai indicato questo posto. Tu ci sarai? Ancora silenzio. Continua a leggere »

Personalità

“B&B Dissolvenza” è una locanda immaginaria creata da me e il mio amico fotografo Franco Beccari (altri meravigliosi scatti di Franco li potete trovare nel suo profilo flickr) dove una narrazione accompagnata da una fotografia progressivamente scomparirà, lasciando a l’ospite il compito di immaginare l’antefatto e il prosieguo. Questa la seconda puntata.

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Se tende il corpo a destra, è verso destra che tenterà di fuggire. Allora vedrai il corpo flettere e i suoi occhi vacui ti fisseranno e tenteranno di convincerti del contrario. Ovvero che attenderà lì, dove l’hai scovato, il colpo fatale. Senza reagire al destino. Ti sembrerà di vederti riflesso nei suoi occhi e quell’attimo ti sarà fatale. La sua mente raccoglierà alla causa ogni singola fibra muscolare e al momento opportuno, quando il tuo respiro si sarà oramai fermato e la corda sarà tesa fino all’orecchio sinistro e oltre, sguscerà via e il sasso andrà a sfiorare tutt’al più la coda. Allora quegl’occhi non ti sembreranno più così vacui e non avrai più dove specchiarti e i tendini liberati dalla tensione inizieranno a dolerti e con essi lo stomaco. Non al centro, non è lì che devi mirare, ma là dove tendono le gambe e il corpo. E in definitiva: la mente.
Questo gli avevano insegnato e questo pensava ora, mentre il laccio teso gli faceva vibrare il polso e le dita iniziavano ad allentare la presa sul sasso. Così tirava alla fionda suo padre, così cacciava suo nonno, così uccideva suo bisnonno e così a tutti aveva insegnato il trisnonno. Si caccia con il corpo, si uccide con la testa. Il cacciatore legge la paura, interpreta la paura, dirige la paura. Ci sono animali che hanno solamente la paura a difenderli dal mondo esterno. E’ una paura intelligente che non scade mai nel panico. La paura può essere salvifica se non hai altra difesa e se davanti a te c’è una fionda e una mano salda a tendere il dardo fatale.
Aveva ragione mio padre, mio nonno, mio bisnonno. Pure mio trisnonno. Nel momento della caccia si racchiude l’esistenza, pensò. Che non è una strada diritta e non è manco una strada curva. E’ una strada con infinite traverse e quando la diritta via è impraticabile, tocca voltare a destra e sinistra. E pensò che anche a quell’essere che aveva davanti qualcuno aveva insegnato come comportarsi. Fu allora che vide quel piccolo corpo tendere a destra. Guardò a destra anch’egli con l’occhio sinistro, quasi a preparare la mira. L’avrebbe colpito? Probabilmente si. Ma era davvero questo il fine ultimo di quella caccia? No, si disse mentre ormai le dita liberavano la presa sul sasso. No, il fine ultimo è divenire uomo. La differenza tra uomo e ragazzo sta tutta lì: il ragazzo assorbe, l’uomo rielabora. Quello che gli avevano insegnato era una strada diritta, ma di vie traverse non gli aveva detto mai nessuno. Ora stava a lui dimostrare dove stavano quelle strade. E così scagliò il sasso a sinistra dell’animale.

L’anguilla

“B&B Dissolvenza” è una locanda immaginaria creata da me e il mio amico fotografo Franco Beccari (altri meravigliosi scatti di Franco li potete trovare nel suo profilo flickr) dove una narrazione accompagnata da una fotografia progressivamente scomparirà, lasciando all’ospite il compito di immaginare l’antefatto e il prosieguo. Questa la prima puntata.

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Il posto era quello. Il molo di mezzo, aveva più volte ripetuto a sé stesso. E sempre aveva aggiunto: l’unico con la lanterna in funzione. Non era cambiato nulla da allora. Né il molo, né il delicato sciabordio delle onde su esso. E la lanterna, il piccolo faro, come lo avevano chiamato loro, raggiante come in quel giorno lontano in cui tutto era iniziato. E la bicicletta, la stessa di allora, e il ciclista, ovvero lui, e la canna da pesca che poi altro non fu cheesca e nemmeno di preciso sapeva come si usasse, lui, una canna da pesca. Aveva ritrovato la canottiera indossata allora, rispolverato i calzoncini, gli stessi identici calzoncini beige e calzato le scarpe, ormai lise, di quella serata. No, non tutto era identico a quella sera. Mancava qualcosa, qualcuno. In quel mare scuro di cui si indovinavano onde placide e si percepiva soltanto l’odore salmastro che percorrendo la pelle arrivava alle narici doveva essere finito l’incanto di quello che fu. Questo faro minuto, gli aveva detto allora, e i suoi raggi hanno portato l’incanto a veleggiare fino a noi. Noi, sublime parola. Ecco, l’incanto del noi. Laggiù, doveva essere intrappolato, incagliato tra gli scogli. Si, l’incanto del giorno in cui tutto ebbe inizio doveva essere tornato alle origini e lì lui lo avrebbe stanato con la canna da pesca, che come allora era soprattutto esca. E quando il filo strattonò e lui stesso fletté assieme alla canna e tutto, perfino il faro e perfino i copertoni della bicicletta, gridava all’incanto! all’incanto! gli parve di averlo afferrato. Tutto tornerà, si disse. Ma dal mare scuro e sonnacchioso poté trarre solamente un orrido serpe che si dimenava in diabolici vortici lasciando una scia di acqua e disperazione sul molo. Che cosa immonda è il passato, pensò. Tutto era come allora. Ma l’incanto si era tramutato in serpe. E l’inesorabile salmastro aveva sgretolato tutto.

La sera antecedente la sua esecuzione F.L. se ne stava con le gambe distese sul pagliericcio della cella e gli fuga-magritteavambracci appoggiati in modo tale da tenere schiena e testa sollevati dal giaciglio. La stanza misurava pochi metri di lunghezza per un paio di metri di larghezza e il mondo esterno non era che un quadratino di pochi centimetri da cui una luce fredda fendeva quel microcosmo e il suo pulviscolo per il lungo fino a scagliarsi contro la piccola e fredda porta di metallo. Nelle ore in cui si faceva più intenso, quell’alito di luce permetteva a F.L. di percorrere con lo sguardo le rughe del muro scrostato, o forse mai intonacato, della cella. Negli ultimi giorni questa era stata la sua unica occupazione. F.L. si sdraiava sulla branda situata sul lato sinistro del muro, individuava un solco di suo piacimento e con l’indice della mano destra ne seguiva le bizzose traiettorie anche là dove la luce non gli permetteva di arrivare con lo sguardo. Era proprio dove l’immaginazione sostituiva l’osservazione che quelle linee prendevano forma. A poco a poco si distingueva un naso, una bocca, un mento e più quelle linee venivano calcate dall’indice di F.L. e più egli poteva riconoscere i lineamenti di uomini e donne, a lui noti, che pochi giorni dopo lo avrebbero visto esalare l’ultimo respiro davanti ad un plotone d’esecuzione. Continua a leggere »

Di fiumi è pieno il mondo. Quello dei vivi e pure quello dei morti. Ci sono fiumi che attraversano l’inferno, altri che scendono dalle montagne come una lacrima e fendono la pianura come una colata d’argento. Ci sono fiumi la cui 20130713_184357acqua è in grado di cancellare i ricordi e fiumi capaci di purificare dai peccati. I cinesi sulla riva del fiume attendono il cadavere del loro nemico, i coloni inglesi in America vi costruirono la città più grande del mondo. Il fiume è vita e morte. I romani raccontavano che il fondatore della città eterna fu portato dalle correnti del Tevere, mentre Cesare, per fondare l’Impero, dovette attraversare un fiume di nome Rubicone. Quando poi lasciavano le spoglie terrene, romani o greci che fossero, i defunti dovevano attraversare un paio di fiumi per poter finalmente riposare in pace.

Sul rapporto che ha legato il fiume e l’umanità ci sarebbe un’infinità di cose da raccontare. Ma di questo troverete dissertazioni in ogni dove. A mio parere il fiume è anche una cosa personale, metaforica. Continua a leggere »

1- Slontcha!
C’è una zona a Dublino in cui di giorno troverete famigliole anglosassoni, scandinave, celtiche e mediterranee ivi

Guinness for strength

Guinness for strength

portate dalla Lonely Planet impugnata dal maschio adulto. E’ gente di passaggio, Temple bar non è il loro habitat. Danno un’occhiata alle ragazzine urlanti, padri e figli ammiccano, madri e figlie invidiano. Poi proseguono altrove, verso un turismo di spiegazioni più sostenibili da affibbiare alla prole, verso una Dublino meno rozza e impresentabile.
Ma a parte l’imbarazzo di alcuni, al giorno Temple bar non è niente di che, una sorta di Ibiza del freddo, vento e pioggia. Quando calano le tenebre e ad ogni rintocco delle campane una percentuale sempre maggiore di persone rispettabili rientra nelle proprie stanze, questo quadrato di pub nel cuore di Dublino si trasforma mano a mano in un girone dell’inferno di gente putrida, imbevuta di birre nere e whisky gialli, incapace di programmare la giornata successiva e, alcuni, la vita stessa. O forse no, magari è una composita formazione in cerca di un momento di evasione e poi eccoli pronti a lasciare peti intrisi di luppolo e cibo di strada sull’aereo che li riporta alle quotidiane incombenze.

E l’orario si è fatto serio, quasi il sole si dice pronto ad accarezzare il famoso cielo d’Irlanda con i suoi raggi, quando all’angolo di uno di questi pub un personaggio poco e nulla celtico attende non si sa chi né cosa. Ha un berretto e una sciarpa turisticamente irlandesi, un occhio spento e l’altro sbilenco, una birra nella mano destra e una speranza, seppur fievole, di importunare ancora turiste con il suo approssimativo inglese. Quand’ecco che una zingarella anch’essa munita di bicchiere, ma contenente denaro e non liquido inebriante, gli si accosta garbatamente sulla sinistra. Il nostro ha lo sguardo fisso verso il nulla, la mente leggera e la mano avvezza al brindisi. Intravede solamente un bicchiere e non fa caso al contenuto, all’inequivocabile foulard sulla testa della Signora. Una sola cosa gli pare possibile in questo momento: che qualcuno gli richieda l’ennesimo brindisi della serata. “Slontcha!” pronuncia senza convinzione. E la zingarella ascolta il tintinnare delle monete nel suo bicchiere e si dice che no, nemmeno Temple bar è quella di una volta. Vecchia sporca Dublino. Continua a leggere »

Vittorio

Poco è rimasto di lui: una lapide al cimitero di Groppoli di Mulazzo, ma non è qui che riposa, un albero nel viale delle rimembranze del paese, un nome scolpito su pietra e fagocitato dai licheni, un libretto fasullo in cui cita l’Eneide di 20150524_202652Virgilio, una foto – l’unica della sua vita – appesa al muro della stanza di mia nonna, sua figlia. Quando ero bambino osservavo quella foto con soggezione. L’abito militare, i garetti fasciati, un leggero strabismo, uno sguardo severo e tuttavia impaurito.

Di lui non so molto e comunque sono racconti di mia nonna. Che non lo ha mai conosciuto. Che ne sapeva poco e quel poco lo aveva saputo dalla madre nonché moglie di Vittorio, anch’essa piuttosto all’oscuro. E ad ogni modo, quel poco che sapeva non era manco vero. Tante volte ho immaginato quella povera donna piangere due volte, la prima vedendo il marito partire e la seconda vedendosi recapitare una cartolina listata a lutto. Le lacrime subito secche, i tre bambini ignari e affamati. La vita.

Morto per la patria. Di cui non avrebbe saputo vergare nemmeno la prima lettera, di cui non sapeva la capitale, il nome del Presidente del Consiglio. Vittorio non conosceva altro che la fatica e la fame. Lui che nella natia Groppoli le barelle le usava per portare le patate, arrivato sul Carso ha iniziato a caricarci uomini rantolanti, morti, gente che si teneva le budella attaccate al corpo. Le budella le aveva già viste, Vittorio. Ma si trattava di maiali, non di cristiani.

E un giorno in quella barella c’hanno portato lui, cadavere. Mia nonna diceva che lo aveva colpito una bombarda alla testa. Ma non è vero. O meglio: non si sa. Mia nonna diceva che era seppellito a Redipuglia. Ma non è vero. Quando ci andai, non lo trovai. Mia nonna diceva tante cose e quelle cose lei e la madre le leggevano in un opuscoletto che lo Stato consegnò ai familiari delle vittime. Ma non c’era pressoché nulla di vero. Vittorio che citava Virgilio. Vittorio che aveva la profondità di un Goethe. Vittorio fervente nazionalista. Nessuno aveva il coraggio di dire a mia nonna che erano tutte balle, che Vittorio era del tutto analfabeta, pratico, impaurito. Nessuno. Nemmeno lei stessa.

Ancora osservo quell’unica foto di Vittorio. Si, è proprio impaurito. Il lampo del magnesio è come uno sparo. Sorrida! avrà detto il fotografo. E poi il colpo, troppo veloce per preparare un sorriso. Qualche mese più tardi un austriaco deve avergli usato meno premura. E Vittorio non sorrise nemmeno allora. Né allora, né mai più.

Era uno di quei giorni in cui avevo deciso di importunati con chissà quali tediosi discorsi. Chissà cosa ti dovevo aver chiesto per sentirmi rispondere: “Non so se c’è alcunché di là, ma se c’è spero si possa camminare scalzi come nel Magra a groppoli1giardino di casa”. Avevamo le gambe immerse nel fiume e tuttavia fuori di quel tanto da non provare quello spiacevole brivido freddo alle cosiddette. Guardavo l’acqua, pensavo a quello che mi avevi detto e si, mi sembrava proprio una bella risposta. Avrei voluto ribattere qualcosa, dimostrarmi parimenti arguto, ma dalla mia bocca non uscì nulla. E così continuai a guardare l’acqua che inesorabile scorreva verso il mare.

Prima c’è l’incredulità, poi un senso di disagio che ti rende il tutto poco credibile. Quindi il dolore si fa largo nel vuoto e infine ecco la rassegnazione. Solo la rassegnazione rende nitido il pensiero. E ora che sono ormai rassegnato all’idea che davvero tutto è successo, non mi rimane che pensare a come fossi un pezzo unico, un esperimento umano assolutamente irripetibile e per questo ancor più pregiato. Bizzarro, sensibile, fantasioso, intelligente e mai eccessivo. A volte ci facevi un po’ girare i coglioni, ma tant’è. Domenica un altro dei tuoi migliori amici mi ha detto: mi fosse arrivata questa chiamata qualche anno fa, avrei pensato ad uno dei suoi scherzi idioti. E’ vero. Il migliore antidoto ch’io abbia mai conosciuto alla banalità e al conformismo degli anni che abbiamo vissuto assieme.

Mi auguro tu abbia trovato quel prato dall’erba delicata come quella del giardino di casa. Spero anche ci sia un fiume nei paraggi. Ecco, questo avrei potuto dire allora, quando l’acqua fredda mi minacciava le cosiddette e gelava i pensieri. Un bel fiume come quello che ti ha sempre accompagnato di qua. Qualunque sia il suo nome, il suo odore, di qualunque forma e sapore siano i pesci che lo abitano, tu fallo scorrere all’incontrario, verso monte. Così.

Non è impossibile, è solamente una cosa bizzarra, da pezzi unici. Come te.