“Ci sono nella vita di una città dei momenti irripetibili, un pò come la fioritura dei ranuncoli di cui vi dicevo sul col Birone, i momenti in cui tutto sembra andare per il verso giusto, per le giuste convergenze. Poi a quel consenso spontaneo sono subentrate le pubbliche relazioni, tutto si è burocratizzato, specializzato, separato, al posto di quella società omogenea ne sono arrivate altre a isole separate, neppure la prima della Scala, neppure la premiazione degli “Ambrogini d’oro” ci riportano a quel momento sociale magico.” (da G. Bocca, “Il provinciale”).
Ogni volta vado a Milano e il treno si insinua tra quei quartieri postbellici penso a quella città degli anni cinquanta e sessanta, ai suoi personaggi, artisti, delinquenti gentiluomini, poveracci, perdigiorno, terroni con la valigia di cartone, imprenditori che conoscevano la fatica ma non la borsa. C’è chi dice che le migliori menti siano prodotte dai momenti di crisi e portano ad esempio l’Italia del cinquecento uscita dalle terribili guerre d’Italia. E’ vero, ma in parte. Quella Milano in odore di progresso sfornava e recepiva talenti. Un fenomeno non più ripetibile. Si potrebbe controbattere, non a torto che alcune città come New York hanno oggi una grande scena culturale e attirano piccoli e grandi artisti. Non c’è però nulla di spontaneo in questo, si va a New York perchè la ci sono i soldi e i businness di produttori, case discografiche, editrici, l’arte è spesso ridotta a happening ricchi di nomi, ma scarsi di idee. C’è molto di valido nel mondo underground, ma rimane un circuito ristretto e la mentalità imperante del guadagno e basta non ne consente l’emersione. Se domani la città “in”, quella in grado di spendere più soldi e patinare la vita, sarà Mumbai, tutti andranno là. Ma sono i soldi a muovere l’arte, non l’anima delle città e delle persone che le vivono. Quella Milano usciva dalla dittatura e dalla distruzione della guerra. Non aveva più nulla, mancavano case e cibo. Eppure aveva la speranza e il futuro, c’era l’idea condivisa che il peggio fosse passato e ora si poteva finalmente costruire qualcosa di positivo. Non sono i momenti di crisi o di contro, di grande prosperità economica a creare artisti, ma la speranza e le idee rivolte al futuro. Si stava bene quando si stava peggio? Forse. Sicuramente si stava meglio quando era più confortante guardare avanti che indietro.
Gaber e Jannacci furono forse i più bravi cantori di quel grande mondo antico. E’ un modo di vivere e intendere l’arte e la cultura che se ne va, rimpianto, per assurdo, anche da chi non l’ha vissuto. Forse un giorno guarderemo al futuro con più coraggio e speranza e allora avremo altri Strehler, Gaber, Jannacci, Bianciardi, Guttuso e tanti altri perdigiorno non meno importanti. Anzi, ho un momento di sconsiderato ottimismo e mi sembra di intravedere qualcosa…. si mi sembra di aver visto qualcosa…. Sa l’ha vist cus’e`? – Ha visto un re! – Ah, beh; si`, beh.
Grazie per questa parole su una città rimpianta in primo luogo da quelli che, nonostante ci vivano, non l’hanno mai conosciuta…
giustissimo. Non è facile vivere le città al giorno d’oggi…
Città che ho frequentato per un anno, grazie ai soldi della comunità europea. Spesata di tutto, altro che underground… mi mancano certi aspetti della città.
Ma sai, oggi, sebbene sembrerebbe più diversificata e eterogenea, è in verità molto meno pittoresca e, a mio parere, interessante. Ci sono aspetti interessanti, ma faticano a emergere, anche perchè sono fortemente autoreferenziali e scadono dunque in un inutile elitarismo.
non sono mai entrato nelle corde di jannacci come invece in quelle di gaber, ma il tuo post va al di là, sorattutto in quel coraggio e in quella speranza con cui guardare al futuro.
Si spera sempre. Ma non solo: Bisogna anche costruire, o almeno provarci.
bellissima riflessione.
quando dici ho visto un re, di quale milanese stai parlando? 😦
Nessuno in particolare, ovviamente. O forse un pò tutti. Ma in verità, oggi, non saprei dove trovarne….
ah beh, si beh, visto che parlavi di un momento di sconsiderato ottimismo, magari ti riferivi a Pisapia…
o chissà a chi altro (considerando che Berlusconi è nato a Milano ed è coetaneo di Jannacci…) 🙂
Se ne vanno sempre i migliori, aggiungo allora….
[…] il post di allegriadinubifragi su Milano, ma anzi sulla speranza, è da leggere. […]
Come spesso accade riscopro un artista nel momento della sua scomparsa.
Jannacci mi piace ma solo in questi giorni, complice anche il tempo libero per le feste, ho ascoltato parecchio del suo repertorio, era davvero un grande.
El purtav i scarp da tennis mi commuove tantissimo, è davvero struggente questa storia del barbone che voleva andare all’Idroscalo su una bella macchina, e anche lui aveva vissuto il grande amore, questo verso è veramente incantevole.
Milano non la conosco ma dalle canzoni di Gaber e Jannacci sembrava un gran posto negli anni 50 e 60.
Anche Genova ha avuto un gran fiorire musicale in quegli stessi anni, forse era proprio la speranza e l’essere usciti da una tragedia immane a fornire la scintilla necessaria per quella grande stagione artistica e musicale… ora invece è tutto un rigirarsi su se stessi, con una qualità che è davvero scesa…
Tutto vero (in certi punti purtroppo, direi) quello che dici….
vero, almeno in parte.
ma in parte direi anche che la Milano degli anni ’60-’70 era un pò la “New York d’Italia”, la città più ricca, più internazionale, più avanzata….
E’ vero, ma la differenza, a mio parere sta in quella che chiamo anima. Mi spiego: allora si andava a Milano non tanto perchè era più ricca (se leggiamo Bianciardi o altri che ne parlano non si parla di ricchezza, è piuttosto una vita bohemienne) ma perchè emanava uno spirito di novità, sperimentazione, speranza, che altri non avevano. A milano sorsero teatri ed altro, ma fare soldi non era l’obiettivo primo. New York è soldi. Ci si va perchè la c’è la gente giusta, che non sono gli artisti, ma i manager. Che altro sono gli artisti newyorkesi se non burattini in mano a manager e produttori?
condivido quanto dici su Milano, almeno in quel periodo.
ma non sono d’accordo allora su New York: anche a New York v’è (o v’era) un’atmosfera culturale…
C’è sicuramente. Ciò che mi preme sottolineare è però la spontaneità. A New York, nel main set, non vedo nulla di spontaneo. Tutto si muove attorno ai soldi. C’è qualcosa all’infuori di esso, ma è schiacciato. Vedrei piuttosto più un modo di vivere l’arte spontaneamente Berlino.